Giocare senza HUD: i videogiochi senza filtro

Viviamo le nostre vite esiliati da questa parte dello schermo. Quella banale, che risponde alle normali leggi della fisica e spesso e volentieri ci vede personaggi non giocanti nelle partite di quei pochi davvero celebri. Per capire cosa succede dall’altra parte ricorriamo a barre della salute e indicatori che ci guidano negli open world. Eppure a volte la regola salta. A volte riusciamo ad essere Jin Sakai senza l’intervento di nessun HUD.

Da questa parte dello schermo non sentiamo dolore quando una katana penetra le nostre carni. Non sentiamo il peso dell’armatura, la fatica dopo una corsa, la sensazione dell’asfalto caldo sotto la presa delle nostre mani durante il parkour. Se lo sviluppatore è stato abbastanza in gamba possiamo avvicinarci a qualcuna di queste sensazioni: la spada resta tra le mani del nostro avatar, ma riusciamo a capire se il colpo è andato a segno grazie a suoni, animazioni e magari anche alla vibrazione del controller.

A volte la regola del canonico HUD salta. A volte riusciamo a essere Jin Sakai senza l’intervento di nessun HUD.

L’unico modo per capire se siamo feriti però rimane la barra della salute. Al massimo la si può sostituire con quelle macchie di sangue che compaiono ai bordi dello schermo tipiche degli sparattutto moderni, che però dopo qualche secondo spariscono per comunicarci che possiamo tornare sotto il fuoco nemico. Eppure alle volte qualcuno o qualcosa ci provano. Si cerca di superare queste regole grammaticali scritte su nessun dizionario eppure così familiari, di inserire gli indicatori direttamente in elementi di gioco – in modo diegetico, direbbero gli studiati – e di portare chi sta giocando dall’altra parte dello schermo senza nessun filtro. O quasi.

SAMURAI JACK JIN SENZA HUD

Ghost of Tsushima a una prima occhiata sembra il prototipo di quella che è diventata “la solita esclusiva PlayStation”: un videogioco – spesso di ruolo – open world con un fortissimo accento sulla narrativa e con contenuti a pioggia, in modo da arrivare facilmente anche a 50-60 ore di giocato facendo tutto. Un perfetto figlio di The Witcher 3 insomma, l’ennesimo dopo Horizon Zero Dawn. C’è del vero in queste parole, ma va riconosciuto a Sucker Punch il merito di aver provato a rompere la parete. Dopo qualche ora nella Tsushima dello sviluppatore americano si inizia ad orientarsi senza più dover necessariamente ricorrere all’HUD: i segnali sono tutti sulla mappa, basta saperli cogliere per capire cosa aspetta Jin lungo la strada. Fumo vuol dire accampamenti, truppe del Khan che stanno occupando terre non loro opprimendo la popolazione locale. Una volpe che si avvicina durante l’esplorazione, se seguita, porta ad un santuario Inari dove sbloccare e potenziare gli amuleti. Gli uccelli d’oro conducono Jin, se seguiti, a un punto di interesse nei dintorni.

HUD

Meglio della pro loco.

Ma la meccanica più interessante a livello di navigabilità rimane quella del Vento Guida: selezionato un obiettivo sulla mappa poi basta scorrere sul touchpad una volta in-game per far soffiare il vento nella direzione impostata, arrivando a destinazione senza bisogno di altri segnalini o indicazioni. Nello skill-tree di Jin sono presenti anche delle voci dedicate al Vento Guida, che permettono di localizzare collezionabili e altri luoghi di interesse in questo modo.

va riconosciuto a Sucker Punch il merito di aver provato a rompere la parete

Sembra poca cosa, eppure delle idee tutto sommato semplici come queste rendono l’esplorazione in Ghost of Tsushima molto più sapida. Spostarsi all’interno dell’isola diventa un’esperienza di per sé, dando una dignità ad ogni metro quadrato di mappa che prescinde dagli aspetti quantitativi con cui di solito viene misurata un’esperienza del genere. Il recente Final Fantasy VII Rebirth ha provato a riprendere alcune di queste idee per i suoi tanti (forse troppi) collezionabili, in particolare riproponendo qualcosa di simile agli uccelli d’oro e alle volpi Inari. Alla Gaia di Square Enix è mancata però l’amalgama che invece la Tsushima di Sucker Punch ha mostrato sullo schermo, perché in Tsushima era un aspetto trasversale e invece vestiti i panni di Cloud la sensazione è che sia un’aggiunta posticcia per indirizzare un’esplorazione che va su binari precisi. Su Gaia non c’è quella libertà, e non c’è quel coraggio che invece permetteva al giocatore di essere Jin Sakai senza filtri. È per questo che comporre in haiku nei suoi panni sarà sempre un’esperienza più significativa che scalare l’ennesima torre di rilevazione che poi triggera una videochiamata con Chadley.

SENUA’S SACRIFICE

Si racconta spesso Hellblade – il primo capitolo di Hellblade, tra qualche giorno – come un unico piano sequenza. Non ci sono interruzioni della telecamera, non ci sono stacchi tra le sequenze filmate e quelle giocabili. Per rendere questo possibile chiaramente deve venir meno tutto quello che possa evocare il concetto di HUD.

Hellblade va assolutamente giocato in cuffia per godere appieno del suo sound design

Ninja Theory non a caso dà le uniche due indicazioni esplicite all’inizio dell’esperienza: è meglio giocare Hellblade con le cuffie e se la marcescenza sul braccio di Senua raggiunge la testa è game over definitivo. Il primo consiglio è di quelli d’oro. Non solo perché Hellblade va assolutamente giocato in cuffia per godere appieno del suo sound design, ma perché qui il sonoro si fa meccanica: laddove l’anno dopo God of War (che per tantissimi versi di Senua è un emulo, specie guardando all’idea del piano sequenza) durante i combattimenti aggiungerà delle icone per indicare gli attacchi che arrivano alle spalle dell’inquadratura strettissima su Kratos, in Hellblade sono le voci nella testa di Senua ad avvisare del pericolo. Quelle voci che non dovrebbero esserci, nella psiche di una persona cosiddetta “normale”, ma che invece sono lì e quando non ci sono sono un’assenza fragorosa nel loro silenzio.

HUD

Kratos questo non lo ha fatto.

Il secondo suggerimento è più sibillino. Non è tecnicamente una bugia, ma Ninja Theory lascia intendere che troppi game over di fila porteranno la marcescenza a salire il braccio fino a cingere la testa di Senua, e con lei il salvataggio sull’hard disk. Si gioca tenendo d’occhio il braccio di Senua, e constatando che in effetti man mano che si prosegue con la storia il marcio si fa sempre più pericolosamente vicino al suo obiettivo. Non dipende davvero dal numero di morti in cui si incappa giocando, è solo un artificio narrativo inventato dallo sviluppatore per trasferire parte delle ossessioni di Senua sul giocatore, per cercare di fargli percorrere un miglio nelle sue scarpe e provare ad immaginare cosa voglia dire vivere tutta una vita vittima di quelle psicosi. Non sarebbe stata la stessa cosa se quella marcescenza fosse stata una barra sullo schermo. Il trucco si sarebbe svelato subito, il numero di prestigio avrebbe rivelato la sua banalità impedendo di credere che la magia esiste. Ci sarebbe stato un filtro tra chi stava davanti allo schermo e a Senua che vi stava dentro, impedendo a Hellblade di essere quel meraviglioso simulatore di malattie mentali che in un certo senso è.

BEST DEBUT INDIE (SENZA “DEBUT” E “INDIE”)

4455 recensioni, di cui il 95% positive. 5 ore di gioco da bersi tutte d’un fiato, dove l’unica indicazione è quella che all’inizio dell’esperienza dice di premere il tasto A, per il resto nulla, ci pensa il game design a guidarti, non hai bisogno di linee di dialogo o pop-up in stile Ubisoft. 24,99€ tra i meglio spesi della mia vita.

Pochissimi giochi riescono ad essere così chiari come Cocoon, anche quando propongono enigmi articolati

Cocoon è questo, oltre ad essere il gioco che nel 2023 si è aggiudicato la statuetta dei The Game Awards come miglior videogioco indie di debutto senza essere indie (il publisher è Annapurna Interactive) e senza tecnicamente essere un’opera di debutto, visto che Geometric Interactive è guidata da Jeppe Carlsen, designer di Limbo e Inside. Ma sporcare qualcosa di così puro come Cocoon con la polemica sarebbe svilirlo. Pochissimi altri giochi riescono ad essere così chiari anche quando propongono enigmi articolati senza utilizzare niente di artificioso per spiegarsi. Abbiamo inventato la parola per poterci mentire, e poco più sopra Ninja Theory ne dava un grandissimo esempio in ludo. Cocoon non mente, perché la parola la rifugge, comunica per suggestioni e suggerisce sfruttando il sonoro, il design dei livelli, qualche tentativo a tentoni che permette di capirne le regole quasi fossimo bambini che devono mettere la mano sul fornello e scottarsi per poter assimilare il concetto.

HUD

Mondi sulle spalle. Come nel mito di Atlante

Se accettiamo il distinguo tra ciò che è diegetico e ciò che non lo è allora parlare di Cocoon dovrebbe essere sbagliato. Anche altre esperienze indie o percepite come tali hanno provato ad essere allo stesso modo ermetiche, quasi a voler raccogliere con troppi anni di ritardo l’eredità del trittico di Fumito Ueda. Jusant ne è un altro esempio recente, ma anche uno sviluppatore col phisique du role di DON’T NOD ad un certo punto, esattamente come Ueda in Shadow of the Colossus, ha dovuto disegnare a schermo una barra della stamina per comunicare a chi sta dalla parte più banale dello schermo la sensazione di fatica che dovrebbe provare se stesse dall’altra. Cocoon invece ce la fa. In sole 5 ore. Usando un solo tasto. Chiedendo solo 24,99€.

HAVE FAITH

Quella del videogioco senza filtro non è un’idea di quest’epoca. Il periodo storico che chiamiamo settima generazione dei videogiochi, gli anni di PS3 e Xbox 360, sono portatori sani di questo stimolo, che addirittura trovava spazio nel mainstream prima ancora che nell’indipendente.

In Dead Space la barra della salute è posizionata sulla schiena del protagonista, e le armi indicano il numero di proiettili residui sui loro display

Dead Space è diventato l’esempio più pop di questo approccio – è molto facile che il termine “diegetico” tu l’abbia sentito la prima volta proprio in riferimento a Dead Space – e Isaac Clarke dialogava senza l’intercessione di artifici di interfaccia col giocatore già dodici anni prima di Jin Sakai. In Dead Space la barra della salute è posizionata sulla schiena del protagonista, e le armi indicano il numero di proiettili residui sui loro display. Non è di per sé un’idea nuova – già il primo Halo faceva la stessa cosa con alcune armi, per esempio il fucile d’assalto terrestre – ma di solito queste trovate erano integrate con un HUD canonico, del tutto assente invece nell’opera di Visceral Games.

Dead Space

Dead Space è diventato l’esempio più pop, col suo approccio “integrato” a un realistico HUD “olografico”.

Ma chi ne ha fatto davvero una missione di vita, rinunciando completamente a qualunque tipo di indicatore a schermo limitandosi semplicemente ad indicare di rosso la strada da percorrere è stato un altro sviluppatore, sempre in seno ad Electronic Arts. DICE con Mirror’s Edge ha creato quello che è a tutti gli effetti l’estremo opposto di un Assassin’s Creed.

DICE con Mirror’s Edge ha creato quello che è a tutti gli effetti l’estremo opposto di un Assassin’s Creed

In tutte le due serie il cavallo di battaglia è l’uso del parkour per spostarsi sulla mappa, ma se Desmond Miles poteva contare sugli indicatori dell’Animus per orientarsi a Gerusalemme, Venezia e Costantinopoli, Faith deve accontentarsi di seguire le tinte con cui si colora la Città. Non ha tempo per indugiare sull’architettura cittadina, sui suoi design così sobri e moderni da sembrare sterili che sembrano finalmente riuscire a vivere solo quando diventano la sua via di fuga, il suo modo per arrivare da A a B possibilmente correndo più veloce delle forze dell’ordine. Non ne ha bisogno, Faith, in realtà: non gli serve una Tour Eiffel da scalare, la Città ha dimenticato la bellezza che può nascere da quei punti di interesse nella vita vera per lasciare spazio a spazi più asettici, ripetuti fino a diventare liminali.

La Città non usa mai il rosso come elemento cromatico. Il rosso è solo per Faith.

Mirror’s Edge visto con gli occhi di oggi è quasi un atto rivoluzionario nei confronti di quello che poi è diventato il videogioco open world. Forse anche per questo EA ha deciso di lasciar perdere la serie, nonostante un tentativo di reboot nel 2016 – l’anno successivo all’uscita di The Witcher 3, la matrice cui ormai il genere sembra non riesca a non rifarsi. Forse anche per questo nonostante siano passati sedici anni ricordo ancora l’impatto con quella demo di gioco scaricata su PlayStation 3 sognando di trovare una copia usata ad un prezzo accessibile in qualche negozio retail.

E allora scelgo di aver ancora fede, di credere che sarà ancora possibile attraversare lo schermo senza l’artificio di barre e indicatori

Quante delle parole che ho appena scritto oggi non hanno più senso? Eppure continuo a volere Faith, continuo ad avere fede. Alla fine anche quella che sembrava la solita grande esclusiva PlayStation, qualche anno fa, aveva mostrato sotto la superficie i segni lasciati (anche) da DICE per dialogare senza filtri. E allora scelgo di aver ancora fede, di credere che sarà ancora possibile attraversare lo schermo senza l’artificio di barre e indicatori.

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