Mute – Recensione

Nella Berlino del futuro, nello stesso universo narrativo di Moon, c’è un barista amish muto (Alexander Skarsgard) che vede sparire nel nulla la sua ragazza. La rabbia lo porterà a svolgere di sua iniziativa un’attenta ricerca partendo da piccoli dettagli e indizi che lo catapulteranno nei loschi affari di gruppi malavitosi e chirurghi clandestini che desiderano tornare negli Stati Uniti.

Tutto questo è Mute: invero troppo poco da raccontare per i circa 120 minuti che propone. Il nuovo film di Duncan Jones, archiviata la pratica mediocre WarCraft, è basato su uno script che il regista aveva nel cassetto da molto tempo; per l’occasione si fa finanziare in toto da Netflix e può finalmente dare vita a questo progetto fallimentare, ma al tempo stesso necessariamente personale e intimo.Mute immagine Netflix 01Mute è indiscutibilmente un film scritto male, ma forse questa non è la parola giusta per esprimere un giudizio su quanto narrato, perché forte delle influenze delle architetture urbane di Blade Runner (o anche Altered Carbon, visto che sempre di prodotti originali Netflix parliamo), Duncan Jones non vuole necessariamente raccontare un film di fantascienza, anzi, il regista pone il focus sul noir, sui bassifondi e sui gruppi criminali che muovono buona parte dell’economia della città.

dopo la dedica, Mute cambia per divenire un film quasi biografico, un racconto di padri e figli, e sul ruolo di genitori

La Berlino di Mute è una città oscura, che si mostra soltanto al calar della notte (il protagonista, come già detto in apertura, lavora come barman in un locale notturno), ma senza un vero e proprio pretesto per essere raccontata. Mancano infatti gli intrecci tipici del genere e gli elementi presenti si mostrano di poco spessore, mai nettamente concreti per rendere giustificabile la corsa contro il tempo. La stessa caratterizzazione dei personaggi secondari rimane sterile, eterea: vengono portati avanti tanti discorsi su atteggiamenti tipici e modus operandi, ma mai nulla che valorizzi il tal personaggio.Mute immagine Netflix 02

Mute è la dedica di un figlio al padre scomparso

Nella terza e ultima parte lo script migliora, presentando twist narrativi degni di nota, con personaggi che si scambiano di ruolo pur rimanendo sempre intrappolati nella rigida classificazione di buoni e cattivi, lasciando allo spettatore il compito di decidere cosa sia “giusto”. Quindi, all’improvviso, avviene qualcosa che ribalta tutta la percezione del film: poco prima dei titoli di coda, il regista dedica l’opera a suo padre David Bowie e alla tata, entrambi scomparsi da poco. Ed ecco che avviene un piccolo miracolo metacinematografico: il film rimane in quel limbo fatto di prodotti mediocri, e certo non raggiunge una sufficienza piena, eppure – dopo la dedica – sopraggiunge la consapevolezza del significato di quanto appena visto. Mute cambia per divenire un film quasi biografico, un racconto di padri e figli, sul ruolo di genitori e sull’intrinseca missione di dare vita e voce ai nuovi arrivati.

La dedica di un figlio al padre scomparso, dunque. Preso come cinema a sé direi che siamo in una landa desolata, ma se un poco ci immedesimiamo nella finalità personale del regista vien quasi voglia di rivederlo.

VOTO 5.5

Mute immagine Netflix locandinaGenere: thriller, fantascienza
Publisher: Netflix
Regia: Duncan Jones
Colonna Sonora: Clint Mansell
Intepreti: Alexander Skarsgard, Paul Rudd, Justin Theroux, Seyneb Saleh, Robert Sheehan
Durata: 126 minuti

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