Gaming Disorder, ovvero mi piacciono i videogiochi e sono matto

gaming disorder editoriale

La notizia non è delle più fresche: da metà di quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità introdurrà nella prossima revisione (l’undicesima) della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11) – un elenco che permette la codificazione di patologie al fine di compararne statistiche, monitoraggio epidemiologico, interventi e procedure diagnostiche e terapeutiche – la dipendenza da videogiochi (Gaming Disorder) tra i disturbi del comportamento. Parlando sia da videogiocatore sia da medico, non posso che gioire innanzi a una notizia del genere: il fatto che un ente come l’OMS (ovvero, utilizzando il suo acronimo ufficiale con cui è conosciuto a livello globale, il WHO) abbia deciso di dedicare tempo prezioso a una tematica così delicata è un chiaro segno di come la società stia finalmente smettendo di ignorare volutamente i videogiochi, trattandoli come un vero e proprio tabù da nominare solo quando si cerca un capro espiatorio, e abbia cominciato a dedicargli la giusta importanza.

Dal passare qualche sera a settimana davanti al PC all’essere etichettati come “malati” il passo però è tutt’altro che breve. Il presupposto è che, come accade anche per l’abuso di sostanze stupefacenti o per altri disturbi del comportamento come la ludopatia (dipendenza dal gioco d’azzardo), i motivi di tali problematiche vanno spesso ricercati in disagi sociali e psicologici, di cui tali azioni ne sono “solo” il risultato finale, come è possibile leggere anche in questo studio condotto dall’Università di Cardiff nei riguardi della dipendenza da videogioco online. Peraltro, per effettuare ufficialmente una diagnosi bisogna rispettare – salvo casi platealmente eclatanti – una serie di requisiti, tra cui spicca (dal sito della WHO) un’abitudine al gioco dalla durata di almeno dodici mesi e che metta in seria compromissione la propria vita lavorativa, sociale, educativa e personale, in cui la priorità concessa al tempo di gioco supera quella dedicata ad altre attività e interessi.

Fino a pochi anni fa, quando si parlava di dipendenze, si dava per scontato che si parlasse sempre di sostanze (droghe e alcol, fondamentalmente), almeno fino alla pubblicazione della quarta e della quinta revisione del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), in cui viene finalmente sostituita la diagnosi di “abuso da sostanze” con una più attinente “dipendenze e disturbi correlati”, ove compaiono anche le “dipendenze comportamentali” tra cui, appunto, la ludopatia e – con tutta probabilità – la futura Gaming Disorder.

Il motivo di questa lunga chiacchierata su manuali, diagnosi e definizioni è perché, tanto per cambiare, quando si parla del nostro passatempo preferito la stampa generalista (e non solo, purtroppo) tende a utilizzare con fin troppa leggerezza dei termini non proprio appropriati e che inculcano al lettore un’idea distorta di un problema. Basta leggere qualche titolo su vari quotidiani per capire in che modo si tenda a donare alla questione un aspetto fin troppo sensazionalistico: “Giocare troppo ai videogiochi può portare alla malattia mentale”; “La dipendenza dai videogiochi è una malattia mentale”; “Dipendenza da videogiochi è una malattia mentale”; “Dipendenza da videogiochi? È una malattia mentale”.

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per la stampa la dipendenza da internet è una patologia, la dipendenza da videogiochi è una malattia mentale

Non credo che serva sottolineare il modo in cui si tenda a far passare il messaggio che chi passa troppo tempo sui videogiochi sia un malato mentale. Si potrebbe parlare di disturbi, di problemi, di dipendenze, ma no: chi impugna troppo spesso un pad o un mouse è semplicemente un “malato mentale”, e il messaggio che arriva al genitore infastidito perché il figlio passa qualche ora davanti la PlayStation è semplice e diretto. Immaginate le stesse frasi utilizzate per un altro tipo di dipendenza, come possa essere l’alcolismo, e ditemi se anche questa volta – ma tanto dovremmo ormai essere abituati – il videogioco non viene trattato nuovamente come un demone da scacciare e su cui riversare tutte le colpe del mondo.

I problemi, fortunatamente, possono essere risolti, e – almeno per quanto riguarda il nostro territorio nazionale – è possibile contare sull’aiuto del SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) o del SerD (Servizi per le Dipendenze patologiche), che forniscono servizi di cura, prevenzione e riabilitazione di persone con dipendenze da sostanze e comportamentali. Quello che adesso stiamo trattando la novità del momento (il Gaming Disorder, appunto), in realtà è strettamente correlato con la Dipendenza da Internet, un altro disturbo del controllo degli impulsi legato a un uso ossessivo e compulsivo della rete e dei social network, i cui studi in Italia sono iniziati nel 1998 dallo psichiatra Tonino Cantelmi e che hanno visto, nel 2009, l’apertura di un ambulatorio dedicato all’ospedale Policlinico II Gemelli e nel 2014 il primo congresso internazionale dedicato alla dipendenza da internet a cura del centro ESC.

Facendo una veloce ricerca sulla Dipendenza da Internet, i titoli degli articoli correlati sono “leggermente” diversi: “Quando la dipendenza da smartphone diventa una malattia”; “Internet, la dipendenza è patologia”; “La dipendenza da internet è una patologia”. In soldoni, per la stampa la dipendenza da internet è una patologia, la dipendenza da videogiochi è una malattia mentale. Poi ci stupiamo se, in caso di omicidio, viene sottolineata la passione verso i videogiochi del criminale, come se in qualche modo possedere una copia di GTA V contribuisse a renderci dei pazzi sanguinari.

Sinceramente comincio a non aver più la forza di rispondere ad articoli di questo tipo, che raggiungono in un battito di ciglia migliaia di famiglie preoccupate e che mai – per svariati motivi – leggeranno queste righe. L’unica cosa che posso quindi fare è dare ragione a chi scrive queste notizie: solo un pazzo potrebbe tentare di difendere la propria passione per così tanto tempo e senza risultati, come il povero Don Chisciotte che si scagliava contro i mulini a vento scambiandoli – nella sua follia – da giganti dalle braccia rotanti. E io, a quanto pare, matto lo sono davvero.

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