Chi mi conosce da molti anni, avrà sicuramente ascoltato qualche mia personale argomentazione non benevola verso i soulslike, e in particolare contro la trilogia originale di Dark Souls. In una situazione non dissimile da una festa tra amici dove tutti parlano di un argomento a me sconosciuto, avevo poi deciso di mettere mano al primo capitolo, che si palesava dalle voci sentite come un gioco impegnativo, frustrante, ma appagante nelle sue meccaniche. Tutto molto bello e stimolante, ma alla fine della fiera, bollai i tre capitoli di Dark Souls non come brutti titoli, ma semplicemente come giochi che non attiravano minimamente il mio interesse, cercando una difesa personale nella libera e grande differenziazione che il mercato videoludico offre al videogiocatore: c’è chi annualmente aspetta FIFA o PES, io invece aspetto Football Manager , e ancora chi, rispetto a un COD o Battlefront, brama di iniettarsi in vena l’adrenalina di Doom.
In questo quadro generalista, Dark Souls non era un gioco per il sottoscritto, motivo per cui per moltissimi anni sono stato lontano da ogni tipo di prodotto simile nelle meccaniche, e così da qualsiasi creatura fosse partorita da From Software. Poi, però, è arrivata la line up di titoli gratuiti per gli abbonati a PS Plus del marzo scorso, compreso Bloodborne che, a quel punto, ho deciso riscattare. D’altronde, per una manciata di Euro, avevo la possibilità di provarlo.
Gran parte del mio entusiasmo attorno al titolo di From Software si basa sul vincolo di alcune regole
Bloodborne mi ha insegnato l’importanza della mappa e relativa contemplazione nella sua tridimensionalità. Tra shortcut e luoghi che possiamo ammirare più volte da diversi punti di osservazione – per esempio il ponte della Cleric Beast – sono rimasto totalmente rapito dalla potenza espressiva intrinseca della mappa di gioco. Più volte, sbagliando strada, rimanendo ucciso o andando in cauta avanscoperta, mi sono sentito come una formica all’interno di una grandissima scatola, un luogo immenso, ma di facile memorizzazione per orientarsi durante il backtracking e recuperare, così, oggetti o echi del sangue.
Non riesco a spiegarmi perché, nonostante il mio amore per Bloodborne, parallelamente provo fastidio e rifiuto nel giocare a Dark Souls
Non Amygdala, tanto meno Padre Gascoigne o la Presenza della Luna, i nemici più difficili che ho incontrato sono stati quei maledetti topi giganti. Bloodborne mi ha mostrato nella sua massima forma che essere corazzati, abilissimi nello stile di combattimento o padroni di tante altre abilità è nulla se non si è concentrati e giocare con testa anche durante uno scontro con un topo. Proprio la mia spavalderia nel considerarmi forte ed esperto, veniva puntualmente demolita quando bastavano le zannate di due topi per farmi cadere a terra e dover ricominciare tutto dall’inizio. Questa espressione di potenza e controllo da parte del gioco è una forma di comunicazione impressionante, quasi a ricordarmi che non sono qui a giocare un classico GDR e anzi, proprio quando pensi di essere fortissimo e far cadere boss dopo boss senza sforzo alcuno, arriva un misero topo che ti uccide solo guardandoti.
Quindi, per finire, in questi quattro mesi di gioco intenso, Bloodborne ha cambiato drasticamente il mio modo di percepire e usufruire i videogiochi, e in particolare farmi apprezzare un genere che avevo ripudiato con troppa superficialità. Un piccolo miracolo, un eretico che si “converte” a un genere, una missione che è riuscita a Bloodborne e non ai tre Dark Souls. Davvero strano. Ora con l’E3 alle porte, l’attenzione è tutta puntata su questo Shadow Die Twice, il nuovo progetto From Software. In cuor mio spero possa davvero trattarsi di una sorta di Bloodborne 2 anche se gli indizi ci portano inevitabilmente lontano da Yharnam. Magari sarà una nuova IP che, come Dark Souls, mi deluderà, magari no. In lista ho ancora in attesa The Surge e NiOh da provare, vediamo che succederà.