Era da un po’ che l’idea di parlarne mi distraeva le sinapsi, ma per un motivo o per l’altro non s’è mai presentata l’occasione. A fine settembre però, complice la pubblicazione di Death Stranding Director’s Cut su PlayStation 5, magicamente mi sono ricordato di un tema che avevo riposto nel cassetto degli editoriali spaiati.
LA RUOTA GIRA, I CAPELLI CADONO
Non so quanti di voi hanno giocato il discusso titolo firmato da Hideo Kojima, ma so che, com’era prevedibile, il risultato degli sforzi del director nipponico celebre per Metal Gear Solid è stato incredibilmente divisivo: ciofeca o capolavoro, opera d’arte o Bartolini-sim, e potrei continuare così per altre due pagine. Non mi interessa granché formulare un giudizio a sostegno di una o dell’altra corrente di pensiero, stiamo parlando di una produzione effettivamente difficile da valutare (se siete interessati, ecco qui la recensione di Death Stranding del nostro Dan Hero, e qui quella della Death Stranding Director’s Cut). Naturalmente nel corso del tempo un mio verdetto l’ho partorito anche io, e a fine lettura immagino che sarà chiaro anche ai sassi e a chi è solito cibarsene. Positivo o negativo che sia il vostro pensiero in proposito, mentre vergo queste righe approfittando della celestiale serenità casalinga che solo un asilo nido sa darti, ciò che mi preme maggiormente è elaborare nero su bianco un pensiero in cui sono inciampato casualmente fra una consegna e l’altra. Possibilmente rapidamente, ché il nido è un dono ma a una certa chiude.
Se avessi giocato a Death Stranding nei giorni in cui la caduta dei capelli era roba da riderci su ché tanto riguardava qualche amico ma non me (la ruota gira, ora lo so), è altamente probabile che dopo pochissimo tempo l’avrei abbandonato. Quasi sicuramente senza rimpianti, tra l’altro, giacché in quell’età in cui non sei né bambino né uomo la prospettiva di dovermi sciroppare “ore e ore di lente passeggiate per fare una consegna con un protagonista che non si regge nemmeno in piedi da solo” difficilmente avrebbe attecchito in me. Grazie al cielo non è andata così, l’ho giocato soltanto a ruota ormai incontrovertibilmente girata. Oggi non ho alcun timore di sostenere che si tratta di uno dei giochi che più è riuscito a regalarmi delle emozioni incredibilmente intime, personali, a loro modo uniche e chissà, magari anche irripetibili per quanto concerne l’ambito videoludico.
QUELLO PERCORSO INSIEME A SAM PORTER BRIDGES È STATO UN LUNGO VIAGGIO CHE MI HA DATO QUALCOSA CHE VA AL DI LÀ DEL SEMPLICE DIVERTIMENTO
SIAMO TUTTI SAM PORTER BRIDGES
Da lì il passo è stato breve. Tenendo conto del rapporto instaurato con Death Stranding, sono giunto a chiedermi se un videogame debba per forza essere divertente per potersi considerare bello e qui, indeciso sul da farsi, mi sono fermato a rimuginare come quando si aspetta che la crono-pioggia faccia il suo corso. Mentirei se dicessi che completare la bizzarra visione di Kojima mi ha divertito (dal sito Treccani: 2) ricreare lo spirito distraendolo da altri pensieri; interessare piacevolmente): non giurerei di essermi ricreato spiritualmente, proprio no. Il faticoso cammino fino ai titoli di coda è stato estenuante, ad ogni consegna Sam Porter Bridges e io sembravamo portare sulle spalle il peso del mondo intero e non solo quello delle scatole impilate come una babilonia di fardelli, per non parlare di quando i Muli o i Terroristi rovinavano una gita accuratamente organizzata nei minimi dettagli. E le CA? Anche loro ci hanno provato, ma se ci avete giocato saprete meglio di me che diventano rapidamente facili da gestire o schivare, mi pare ben prima degli imprevisti umani.
Eppure, vi dirò, non posso negare di aver amato ogni maledetto istante trascorso nei panni di Norman Reedus, o Daryl Dixon di The Walking Dead se preferite. Talvolta mi è capitato quasi di odiarlo quel fattorino incapace di deambulare in autonomia, penso sia capitato a chiunque, ma comunque sono sempre stati sentimenti forti quelli che mi ha scatenato dentro, percezioni ed emozioni capaci di intrufolarsi dove pochi giochi prima di lui sono riusciti ad arrivare. Può darsi che il confine fra i meriti di Death Stranding finisca laddove ho deciso io di dargli le chiavi per sedurmi l’anima, ma se è così allora sono contento di avergli accordato il permesso di entrare perché è stato bello esplorare liberamente i cocci degli ex Stati Uniti D’America senza alcun contatto canonico con gli altri giocatori ma al contempo sentendoli costantemente al mio fianco.
CHE BELLO SCOPRIRE LE TRACCE DEL PASSAGGIO DI ALTRI GIOCATORI, E LASCIARNE A MIA VOLTA
Roba da pazzi masochisti, dirà qualcuno. Può darsi, come può darsi che io sia perverso o magari ancora sarà il trasgressivo fascino di un gameplay che non ha gameplay (!?), resta il fatto che da tutto ciò ho tratto una soddisfazione strana, particolare, meno avvampante ma più profonda e duratura dell’effimera gioia che riesce a donarmi una partita da urlo in un qualsiasi FPS online o una scalata vertiginosa in una ladder competitiva. Il semplice atto di camminare prendendomi tutto il tempo necessario per osservare, sentire e respirare quel mondo post-apocalittico da riconnettere ad ogni costo e, intanto, fare mio tutto ciò che, implicitamente o esplicitamente, le devastate UCA avevano da offrire ora al giocatore, ora alla persona, è stato più appagante di qualsiasi reward, loot o achievement.
IL VIAGGIO, LA METAFORA E BING
Lo è stato a tal punto che ho il brano “Don’t Be So Serious” dei Low Roar in una playlist musicale. Anche se per la mia compagna è una canzone inquietante e ormai la maggior parte delle melodie che si sentono in casa sono le sigle di cartoni per bambini (io ti troverò e ti ucciderò, Bing), di quando in quando mi capita di riascoltare quel sound ipnotico.
LE NOTE DEI LOW ROAR NON POSSONO FARE A MENO DI RICORDARMI LA BELLEZZA DI QUESTO MONDO DESOLATO
È stato divertente? Difficile definire in questo modo ciò che mi ha restituito l’esperienza, certamente il sollazzo che può offrire un’opera così peculiare non è lo stesso che può dare una partita a un gioco dal gameplay tanto immediato quanto assuefacente, per capirci quei titoli da ancora-una-partita-e-poi-smetto come Slay the Spire o Hades. Eppure, con i suoi difetti e i suoi pregi, con la sua personalità che non può né vuole piacere a tutti, quello compiuto nei panni di Sam Porter Bridges rimane un viaggio che non mi è consentito dimenticare; ogni singolo passo in cui l’ho sostenuto ha lasciato un’impronta indelebile sul terreno e in me, perciò credo proprio che il ricordo di un gioco che non mi ha divertito nel senso stretto del termine rimarrà con me per molto, moltissimo tempo. Non pare anche a voi che, osservandolo da un certo punto di vista, Death Stranding sia una sorta di metafora della vita? In fondo anche lei non deve essere divertente a ogni costo, l’importante è che abbia un significato.