More of the same

more of the same

L’espressione more of the same è di quelle che non riesci a sostituire, anche perché la corretta traduzione italiana (sempre lo stesso) non in tutti i casi si adatta ai prodotti d’entertainment. Prendete Star Wars: la saga creata di George Lucas è per certi versi l’apice del more of the same in un’opera d’intrattenimento, piena di dettagli che vengono ciclicamente ampliati e che spesso hanno contato più delle trame, nello stile di civiltà e alieni come nei piccoli ma sibillini dettagli, perfettamente riassunti in lame laser che diventano doppie e poi addirittura triple nell’elsa di una saber. Il more of the same è il “coltellino svizzero” di Kylo Ren, ma aveva già cominciato nonno Lucas con l’enorme operazione Star Wars-like della seconda (o prima, cronologicamente) trilogia.

Eppure, lasciando doverosamente da parte gli esordi di Una Nuova Speranza, già il secondo film della saga andava ben al di là di questo concetto, e la cosa è accaduta di nuovo l’anno scorso: due talentuosi registi delle rispettive generazioni, Irvin Kershner e Gareth Edwards (più esplosivo quest’ultimo, nato come indipendente), in L’Impero Colpisce Ancora e Rogue One hanno colto l’occasione di dettagliare con vera arte cinematografica l’universo originale, sublimando una creazione non loro sotto gli occhi attenti della produzione. Il more of the same è stato, è e sempre sarà nelle volontà delle major, ma la qualità originale di un’opera, o anche la sua universalità, può essere esaltata dall’interpretazione di talenti freschi e creativi. More of the same, qualche volta con tagli pregiati.

more of the same

Se la volontà di cambiare non c’è, si può portare anche il more of the same addirittura in un’altra galassia

Nel campo dei videogiochi, credo che gli esempi di Mass Effect e The Witcher si presentino ben collocati agli estremi: nessuno sarebbe così pazzo da scomodare la definizione per la saga di CD Projekt RED, eppure si è sempre trattato di un ampliamento del concept originale fino a incontrare i combattimenti a cavallo, la navigazione e tutte le caratteristiche migliori della grafica moderna, mantenendo, peraltro, la stessa cura artigianale sui singoli elementi; si è più sereni, invece, se l’espressione viene associata a un marchio che è riuscito a portare il more of the same addirittura in un’altra galassia, dove tutti sembrano già pronti per un teatrino sci-fi concettualmente identico. Questo ha anche a che fare con la ridefinizione delle regole analizzata da Davide Mancini in uno scorso editoriale sugli open world: far sentire “reale” un’ambientazione su vasta scala significa riempirla di gesti e azioni che ne rendono più naturale la fruizione, come se la stessimo vivendo; aggiungere lunghe percorrenze tra gli obiettivi per fare grossomodo le stesse cose, al contrario, corrisponde probabilmente all’uso più dispregiativo cui viene comunemente associato il more of the same. Non è cattivo, lo disegnano così.

more of the same

L’esempio di DOOM, infine, mi sembra il più eclettico di tutti (anche se il tema dell’articolo mi è venuto in mente con la recensione di Outlast II, per motivi diversi ma equivalenti): ditemi se il reboot della serie id Software non corrisponde a un ampliamento geometricamente perfetto (cioè, paragonabile in ogni direzione) di tutte le caratteristiche nate nel 1995, oggi più grosse, più belle, più fluide, più definite. È fuori luogo definire DOOM un videogioco “originale” (lo era di più il controverso DooM 3, se vogliamo, sbagliando totalmente il colpo), ma per certi versi si è trattato di un more of the same addirittura necessario.

Anche chi svolge un lavoro che prevede un minimo di ciclicità può lasciarsi cullare dalla ripetizione, ad esempio un redattore alla ricerca di argomenti per gli editoriali. In caso di vistoso apprezzamento dell’articolo, aspettatevi per la settimana prossima un pezzo più lungo e che dice sostanzialmente le stesse cose: il more of the same di “More of the same”.

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