Una “verità”, quella espressa dal titolo, che era già testimoniata sulla scatola di Diablo II: il male è sopravvissuto, e così facendo ha lasciato dietro di sé spoglie immonde. Scherzi a parte, mi è capitato recentemente di pensare che – a volte – siamo ingenerosi con le nostre critiche. Era tornato il tempo per il sottoscritto, in questa fredda e maledetta primavera, di reinstallare e rigiocare Gabriel Knight 3: Il mistero di Rennes-le-Château, e di riassaporare così la penna di Jane Jensen, ormai tristemente a riposo dopo la felice parentesi di Gray Matter (un titolo invero sottovalutato) e il meno riuscito Moebius: Empire Rising. Per il discorso fatto in apertura, di tutta un’esperienza fra Cavalieri Templari e vampiri rammentavo soprattutto il deprecabile enigma del pelo di gatto; un finale non lieto e – in alcuni aspetti – appena abbozzato; una grafica povera, appena poco più evoluta di quanto visto in Daggerfall, e una telecamera “ostile”. Insomma, dell’ultimo, straordinario capitolo dedicato alle avventure dello Schattenjäger erano rimaste nei ricordi solo le cose brutte.
Anche per quanto riguarda Oblivion (un grandissimo gioco, diciamolo qui – tra parentesi – ma che sia un punto fermo) è forse più facile ricordare il level scaling ossessivo dei nemici (tanto che per abbattere un ogre oltre il livello trenta occorrono qualcosa come 25 frecce scoccate da un arco daedrico munito di danno da gelo extra), il bottino anch’esso livellato (pessima idea, per un gioco che dovrebbe fare dell’esplorazione e della conquista delle rovine il suo punto di forza) e la dimensione titolare dell’Oblio: uno spudorato copia-incolla di quanto visto nella trilogia cinematografica voluta da Peter Jackson, e non apprezzata da un estimatore del libro di J.R.R. Tolkien. Viene logico citare anche Mass Effect, che con il suo finale “un po’ così” ha guastato (a chi più, a chi meno) il sapore d’insieme del lavoro colossale svolto da BioWare nell’intessere la sua epica spaziale.
capita durante la prima “run” di fissarsi soprattutto su ciò che non va
Eppure come non apprezzare le missioni della Confraternita Oscura e della Gilda dei Ladri? Il lavoro grafico svolto per caratterizzare le nove diverse città di Cyrodiil? Le (ancora) vastissime possibilità di customizzazione del personaggio? E – perché no – la brillantissima OST di Jeremy Soule? Come scordare, tornando a G.K., l’eccellente enigma de Le Serpent Rouge, gli oltremodo brillanti dialoghi, gli spostamenti dei personaggi in un contesto quotidiano e l’umorismo “becero” e maschilista di Gabriel?
Aspetti che meritano di essere ricordati, rinfrescati e divulgati, perché i giochi citati non raggiungeranno forse la perfezione alchemica del piombo mutatosi in oro, ma – per riprendere il concetto di dualismo tanto caro ai catari (e così ben esplicato nell’opera della Jensen) – sono semplicemente bianco e nero, pregi e difetti. I primi non meno rilevanti degli ultimi, anzi. A volte occorrerebbe dunque giocare con più attenzione per fissare i ricordi positivi, altrimenti dovremo dedicare una seconda run per vedere e scoprire che non era tutto da “buttare”, che anche il bene è sopravvissuto.