Lo so, la serie Rick and Morty non è nata ieri, e anche le celebrazioni in corso d’opera non sono sempre appropriate, ora che siamo finalmente arrivati alla terza stagione. Ma non riesco a trattenermi: da un lato, sotto un personalissimo aspetto affettivo, il cartone di Roiland e Harmon è la prima opera d’entertainment che mio figlio maggiore ha segnalato a me, e non il contrario (ne abbiamo parlato un sacco, visto che non si tratta di un edificante e placido TV show); dall’altro, ed è qui il vero gancio per le generazioni più attempate, Rick and Morty parte da una delle icone più universalmente condivise della cinematografia anni ’80, Ritorno al Futuro, togliendole con ferocia tutti i freni del politicamente corretto, oltre che la lineare semplicità dei suoi paradossi quantici. È cattivo, crudo e senza limiti, come nei sogni bagnati dei sceneggiatori per famiglie.
La sua rilevanza mi è tornata in mente con l’avvio della terza stagione (rivelata il primo d’Aprile con una sola puntata a sorpresa, salvo rimandare il resto da veri trolloni), e anche per la via traversa di un tie-in in realtà virtuale – Rick and Morty: Virtual Rick-ality – simpatico ma inevitabilmente riduttivo per le qualità della serie (una collezione di piccole esperienze ludiche, in stile The Lab, comunque imperdibile per i VR-muniti); la parodia è nata come accennato sopra, dall’idea di costruire una versione matura e dissacrante delle avventure di Marty e Doc, peraltro sulla base di un vero e proprio intento vendicativo da parte di Harmon , “tradito” da NBC Universal per una sua serie (la stitcom Community) e dunque deciso a fare a pezzi uno dei monumenti cinematografici di Universal Studios.
La parodia è nata da una rilettura matura e dissacrante di Ritorno al Futuro
I videogame non hanno avuto bisogno di una lunga evoluzione come quella dei serial a cartoni animati, e in un certo senso hanno bruciato le tappe; un percorso, quello dell’animazione occidentale, che si è progressivamente ampliato dalla (apparente) soavità della prima Disney alla rivoluzione a basso costo di Hanna & Barbera, da quella più propriamente contenutistica dei Simpson all’approccio ancora più adulto dei cartoni di Seth MacFarlane (Griffin, American Dad, The Cleveland Show) e di altri serial altrettanto geniali (BoJack Horseman, ad esempio, un altro tra i preferiti di casa mia); in qualche modo le avventure di Lucas Arts degli anni ’90 erano già sulla strada di una commedia dell’assurdo ipercitazionista e acuta, così come lo è oggi la nostalgia “mediatica” di Thimbleweed Park di Ron Gilbert e Gary Winnick, con la sua accorata ricetta a base di Twin Peaks, X-Files e stilemi ludici addirittura indimenticabili.
Un’opera finzionale può disintegrare qualsiasi limite, e Rick and Morty ne è cosciente più di tanti videogiochi
Fumetti, videogame e cartoni possono anche complicare la parabola etica col sorriso sulle labbra, esercizio in cui sono diventate abilissime le serie animate: qualcosa del genere è riuscito al roguelite Binding of Isaac, tra i pochi esempi che mi vengono in mente (scoprirete perché nel prossimo numero di TGM) e che può pure risultare fuorviante, considerato il tono dark e l’esiguità del filo narrativo; a mio modo di vedere, tuttavia, nel nostro caso la sagace cattiveria può integrarsi con una sfida altrettanto “bastarda”, qualità in cui il titolo di McMillen e Himsl si dimostra addirittura magistrale, senza nemmeno proferire parola. Fatevi qualche giorno con Rick, Morty o anche con Isaac, se ancora non l’avete fatto, e cercate di goderveli da veri carnivori: è una tartare dai sapori forti, fatta con la nostra stessa essenza di nerd.