Settimana scorsa il buon Mario Baccigalupi aveva introdotto un editoriale sul gunplay spiegando come gli capitasse di venire additato come violento da persone esterne alla sua passione per i videogiochi, e questo solo perché è uso trastullarsi con gli sparatutto. La cosa mi ha dato da pensare a sufficienza per mettere giù, oggi, qualche pensiero che voglio condividere con voi.
Da giocatore ne ho combinate di ogni. Ho mandato al creatore orde di zombie nei sbriluccicosi corridoi del centro commerciale di Dead Rising; ho accumulato frag a furia di headshot nei perigliosi terreni del multiplayer di Call of Duty prima e di Destiny poi; ho disintegrato popolazioni di Lemmings, in barba allo scopo del gioco che mi chiedeva di salvarli, godendo del loro “oh, no!”, mentre le loro teste esplodevano in un tripudio di pixel; ho falciato fiumane di pedoni per le strade di Carmageddon e Grand Theft Auto; ho perfino picchiato con gusto femmine carucce come Chun-Li e Xiaoyu, fino a far loro uscire flotti di sangue dal naso, prima di metterle al tappeto e passare al prossimo avversario. Tutto questo nei videogiochi, per l’appunto.
Nella vita reale, invece, l’unica specie verso la quale provo istinti omicidi è quella delle zanzare; persino quando pesco una mosca che gira per casa il mio primo istinto è aprire la finestra e spingerla a trovare fortuna altrove. L’unica volta che sono venuto alle mani risale ai tempi del liceo, laddove sono stato costretto alla violenza solo per legittima difesa. A pensarci bene, quasi mi pento persino dei pochi scapaccioni che si sono presi i miei figli da piccolini, per quanto sia consapevole di come – almeno in qualche caso – se li siano comunque meritati.
Eppure, mi riesce ancora difficile interfacciarmi con molte persone, quando racconto cosa faccio nella mia vita virtuale una volta che lancio Steam o accendo la console, e lascio fuori dall’uscio del cervello quella reale, almeno per qualche ora. Qualcuno glissa sull’argomento, qualcun altro si dimostra interessato per chissà quale forma di curiosità antropologica, mentre c’è anche ancora chi se ne esce con frasi del tipo “non ti facevo una persona così violenta!”. Davvero, nel 2017, siamo ancora a quel punto di stallo per cui, se ti diverti a usare un fucile da cecchino in un videogioco, allora sei un probabile pazzo che potrebbe sbroccare da un momento all’altro e fare una strage di innocenti in piazza?
mi riesce ancora difficile interfacciarmi con molte persone, quando racconto cosa faccio nella mia vita virtuale
Posso comprendere che le persone più “anzianotte” fatichino a capire come non esista alcun legame tra la violenza nei videogiochi e quella nella vita reale, e sopporto (comunque con malcelata insofferenza) le prediche di mia suocera quando entra in casa e mi sorprende a godere per un colpo alla testa particolarmente riuscito in Sniper Elite 4, mentre lo schermo si riempie del gore profuso dalla rude crudeltà della kill-cam. Sono invece meno malleabile quando mi trovo di fronte a persone della mia stessa età, quando non addirittura più giovani, e leggo nei loro occhi una sorta di delusione nello scoprire un aspetto della mia vita che modifica, erroneamente e in peggio, la loro percezione del mio carattere.
Allargando il discorso all’accettazione prettamente culturale dei videogiochi nella società odierna, sono onestamente stupito di riscontrare ancora così tanta ignoranza in merito. Quando ero giovincello e venivo visto come un piccolo nerd sfigato, pensavo che – per un inevitabile ricircolo generazionale – a un certo punto della mia esistenza una buona parte delle persone che mi avrebbe circondato sarebbe stata composta da videogiocatori che, come tali, non avrebbero avuto bisogno di grandi spiegazioni sul come e sul perché. Non avrei mai pensato di arrivare a 45 anni suonati e dovermi ancora e continuamente giustificare per il fatto che – nella mia vita virtuale, e solo lì – io mi sollazzi con attività che non ripeterei mai e poi mai in quella reale. D’altronde, ci fosse già stato un ricambio culturale in tal senso, non ci troveremmo ogni tre per due a scuotere la testa di fronte a certi attacchi gratuiti da parte di taluni media che ancora vedono i videogiochi come il male supremo dell’universo e li elevano capro espiatorio perfetto. Facciamo che ne riparliamo tra quindici anni, sperando che, nel frattempo, nell’immaginario collettivo il nostro hobby preferito sia stato sostituito da un nuovo, più pericoloso demone. Sempre che il dittatore con gli occhi a mandorla e il capo di stato dai capelli color carota (due personcine che – loro sì – credono evidentemente che il mondo sia un videogioco con cui trastullarsi) non ci abbiano già mandati tutti al creatore, s’intende.