Anche se può apparire ridondante ribadirlo, considerato lo spazio in cui sto scrivendo, celebrazione assoluta del “più e del meno intellettualmente onesto”, questa non è una vera e propria recensione di Blade Runner 2049 (qui trovate quella nel nostro Gabriele Barducci). D’altra parte, dopo aver posticipato la visione del film a una vacanza con la famiglia, piena dell’estrema empatia che i replicanti possono solo sognare, da ieri sera i miei pensieri sono occupati solo e unicamente dall’odissea dell’Agente K, e non riuscirei a scrivere di altro.
Vi capirei se scappaste a gambe levate anche da qui, come ho fatto io con gli innumerevoli commenti che mi sono passati di fronte e che, in alcuni casi, ad esempio questo, normalmente avrei fagocitato con incontenibile ingordigia; le mie, però, sono solo le riflessioni di un adoratore di Blade Runner e Philip K. Dick, uno dei quelli che nei decenni si è sentito quasi scippato di una passione inizialmente approfondita da pochi, prima per il film del 1982, e poi per lo scrittore californiano, oggi annoverati quasi senza eccezioni come la pellicola e l’autore di fantascienza più influenti del XX secolo. Un giudizio su cui sono pienamente d’accordo, peraltro, ma mi mancano i momenti in cui, con pazienza, mi mettevo a fare proseliti tra chi ancora non aveva letto o non aveva ancora visto ciò che occorreva. Paradossalmente, ora che i proseliti sono milioni e milioni, vorrei parlarne solo io e zittire il frastuono delle voci, come un vero dittatore della cultura sci-fi. Datevi pazienza, è la vecchiaia.
In un certo senso, è come se si fosse passati dalle perfette forme del Rinascimento a quelle più elaborate e “dispersive” del Manierismo
Parto da un’immediata annotazione, personalissima ma rilevante: al cinema, a fianco a me, avevo un amico che non ricordava bene il film originale (e non sapeva addirittura nulla delle successive versioni di
Ridley Scott, di cui
Blade Runner 2049 è la continuazione), riuscendogli a spiegare in poco meno di cinque minuti tutto quel che doveva sapere a livello puramente didascalico. Come dire che, pur non potendogli trasmettere la bellezza della pellicola, i suoi pazzeschi dettagli e tutto il resto, nell’esposizione sono stato aiutato dalla visione tagliente, nitida e poco affollata di eventi che era propria di
Blade Runner, tra le caratteristiche che ne hanno propiziato la perfezione (il verbo è importante, mi raccomando). Nel
2049, invece, le cose sono cambiate:
l’occhio di Villeneuve si alza e mostra tantissimo materiale inedito, descrive una società profondamente mutata ed è costretto in diversi casi a mettere le spiegazioni in bocca ai personaggi, spezzando con un minimo di forzatura le lunghe catene di sequenze dall’abbacinante bellezza. Ci mette dentro fini citazioni letterarie, strizzate d’occhio alla “generazione
Black Mirror” e riapre, platealmente e con grande accuratezza descrittiva, alla desolazione dello scenario terrestre così come era stato pensato da
Dick – e non mostrato nel film di Scott – con le radiazioni e la sedimentazione del consumismo che si ammassano ai margini delle città (unico content spoiler dell’editoriale, solo perché avevo già intuito e spiegato il dettaglio in un altro articolo). Tutta questa esuberanza va comunicata, insomma, al di là del valore di ogni singola pennellata, come se si passasse dalle perfette forme del Rinascimento a quelle più elaborate e “dispersive” del Manierismo (che non è una brutta parola, eh, Michelangelo ne è stato uno dei principali ispiratori). Ho gradito l’ulteriore fusione del mondo di
Blade Runner e quello di
Do androids dream of electric sheeps?, perché di universi distinti si tratta (“ucronici”, ormai, mancando appena due anni ai fatti del primo film), con ulteriori finezze inserite qua e là persino sull’arroganza esistenziale del concetto di “animale domestico”; non di meno, tra i tratti meno digeribili, inserirei tutto quello che ruota intorno all’accezione più leggera del termine “villain”, insieme all’atmosfera “Blade Runner-style” che
Villeneuve evoca visivamente (e sonoramente) quando è necessario e anche quando non lo è.

Nel momento stesso in cui è stata decisa la messa in produzione di Blade Runner 2049, non potevamo augurarci un regista migliore di Denis Villeneuve
Eppure, e qui arriva il punto,
Blade Runner 2049 è un film di fantascienza che rivedrei all’istante. Tutto ciò che ho detto fin qui, ad eccezione (forse, la complessità richiede prudenza pure a posteriori) dei “cattivi” della pellicola, può essere ribaltato mostrandone gli effetti positivi, almeno per come li ho vissuti io: una volta andato a letto, il sangue non è fluito sulle parti del cervello che analizzano la realtà per prevenirne i dolori, bensì sulla porzione che si apre ai concetti più astratti e, dunque, alla creatività potenziale.
La rievocazione dello stile visivo e sonoro? Meglio non si poteva chiedere, persino nella gestualità rituale del personaggi o, perché no, nel trovare riferimenti estetici coerenti al cinema di Villeneuve (soprattutto dalle scuole frencese e russa del dopoguerra). Le citazioni? Davvero sublimi, specie quella da
Fuoco Pallido di
Nabokov, in particolare per dove è collocata. Il recupero di alcune suggestioni dickiane? Beh, sarei rimasto ferito del contrario, guardando a un regista che ha trasposto così brillantemente la poetica esistenziale di
Saramago (con
Enemy, tratto liberamente dall’
Uomo Duplicato). “Umano è” quello che umano sembra, come lo stesso Dick ha sostenuto e trasmesso nelle sue opere (il virgolettato si riferisce a un racconto dallo tesso titolo), e
Villeneuve ne dà una personale e profonda definizione, anche servendosi delle abbozzate consapevolezze del presente. Oggi l’uomo inizia a intuire che la possibilità di ricreare sé stesso (o qualcosa di paragonabile, intellettualmente ed emotivamente parlando) non è così remota, ed è intento, per il momento in via artistica o speculativa, a capire quali saranno le implicazioni di un simile orizzonte, se saremo in grado di reggerle oppure no. Nel frattempo, visto che la settima arte è tornata a parlare dell’argomento, e a farlo con i mezzi più capaci che ha oggi a disposizione (non solo sotto il profilo creativo, come i continui riferimenti visivi a
Sony fanno intendere), non posso che ribadire un fatto quasi ovvio: nel momento stesso in cui è stata decisa la messa in produzione di
Blade Runner 2049, non potevamo augurarci un regista migliore di
Denis Villeneuve. I risultati, potentissimi pur se imperfetti, sono lì a dimostrarlo.