Ieri, dopo fin troppi mesi che era parcheggiato nel mio hard disk, ho finalmente portato a termine Thimbleweed Park. Dato il mio smisurato amore verso le avventure grafiche, e fiero del mio passato da “cercatore di pixel” (leggenda vuole che io abbia imparato a leggere giocando a Monkey Island), l’aver ignorato per così tanto tempo l’ultima opera di Ron Gilbert era una vergogna con cui era impossibile convivere: ergo, complice una piccola vacanza, sono riuscito a ritagliarmi una manciata di ore da dedicare esclusivamente alla mia passione. Ciò che non potevo immaginare è che un titolo all’apparenza così “innocuo” riuscisse a farmi esplodere tutte le sinapsi. Contemporaneamente.
Tranquilli, non vi tradirò servendovi una belle serie di spoiler su un vassoio d’argento, ma colgo l’occasione per confessarvi quello che potrebbe – a tutti gli effetti – essere considerato un mio feticcio: la passione per il metagame. Dietro a questo orribile nome, che peggiore ulteriormente nella sua variante italiana “metagioco”, si nascondono concetti lontanissimi tra loro ma che vengono, in qualche modo, accomunati da una sola caratteristica: la presenza di informazioni che non derivano direttamente dal mondo di gioco ma che, appunto, ci giungono parallelamente ad esso. L’esempio migliore che posso fare riguarda il gioco di ruolo: durante una seduta di D&D (per citare giusto il più famoso, se preferite sostituitelo con Numenera, Pathfinder, Fiasco o quello che vi pare), il vostro personaggio, un guerriero stupido come un comodino e acculturato come un baobab, diventa improvvisamente un biologo marino solo perché voi, la sera prima, avete passato qualche oretta di troppo davanti a Superquark, idolatrando Piero Angela. Le informazioni enunciate dal vostro alter-ego non derivano dagli studi da lui condotti ma, appunto, da fonti esterne al mondo di gioco. E sì, nei GDR il metagioco è punito con la morte.
Tale concetto non ha solo connotazioni negative, più o meno: con metagioco si intende anche tutta quella giungla di notizie e tattiche, almeno per quanto riguarda il competitivo online, che seguono i bilanciamenti e le patch. Se almeno una volta, su Hearthstone, avete rischiato la scomunica dopo aver incontrato l’ennesimo quest-rogue, quello era dovuto al metagame. Lo stesso vale per tutti i dannati Multi-Strumento Mida su Destiny 2, il tank in giungla su League of Legends e tutti quei “tormentoni” dovuti a tattiche particolarmente vantaggiose, almeno fino al nuovo giro di patch.
nei GDR il metagioco è punito con la morte
Purtroppo, e lo dico con il cuore in lacrime, In Memoriam è collassato su se stesso dopo pochi mesi dalla sua uscita: cercando – come il titolo prevedeva – informazioni a proposito di una determinata azienda su Google, prima di trovare la via giusta da percorrere eravamo costretti a schivare come pallottole decine e decine di soluzioni, forum e aiuti che riguardavano, appunto, il gioco in questione. Oggi, nemmeno a dirlo, molte componenti importanti del titolo sono semplicemente svanite nell’etere, lasciandoci con solo meravigliosi ricordi e un pugno di mosche in mano.
Il vero amore venne però con Pathologic, opera magna dei russi Ice-Pick Lodge, che per prepararci all’avvento di una possibile epidemia ci hanno fatto pervenire un DVD contenente un simulatore (il gioco, ovviamente) in grado – a detta del team – di mimare il comportamento umano. Potevano fermarsi lì, ma hanno preferito aggiungere forti componenti oniriche e soprannaturali, tre personaggi con cui ripercorrere l’intera avventura da punti di vista differenti e la steppa russa come teatro (mai termine fu più appropriato) degli avvenimenti. Già leggendo il manuale d’istruzioni cominciavamo a giocare a Pathologic, e ahimé molte di queste caratteristiche sono andate perdute con la Classic HD Edition, pubblicata qualche mese fa su Steam. Confido fortemente nel remake, che dovrebbe giungere sui nostri schermi a breve.
Get Even è riuscito a prendermi in giro sin dal primo minuto