Parlare di videogiochi, come di tutto ciò su cui ci si può confrontare, è un’abitudine che si adotta già da bambini. I primi dibattiti sul gioco più bello, su quale sia più divertente, quale abbia la trama migliore o la grafica migliore, li ricordo proprio tra i banchi di scuola e nelle ore pomeridiane in cui ci si trovava per studiare assieme e in realtà si faceva tutt’altro. Parlare di videogiochi è un’attività alla portata di tutti. Anche ora mi capita, in ufficio, di passare vicino alla macchinetta del caffè e sentire dei colleghi parlarne. Del resto, si tratta di un mezzo d’intrattenimento, ed è normale che tra fruitori esista il confronto e la discussione. Arrivare a parlare di videogiochi in termini critici è uno step ulteriore, che è comunque alla portata di tutti. Per scrivere e fare critica sui videogiochi non servono titoli o qualifiche. Tendenzialmente basta essere molto appassionati e discreti conoscitori della scena videoludica per trovare qualcuno disposto a farti pubblicare qualche articolo su qualche blog o piccola testata.
Di per sé la cosa non è negativa, anzi, rappresenta una possibile occasione di rinnovamento, varietà di opinioni e nuovi confronti. Tuttavia, il modo in cui questa dinamica viene sfruttata, fa nascere un problema evidente che affligge il settore della stampa videoludica. Infatti, questo si basa fortemente sul continuo riciclo di giovani inesperti e volenterosi, attirati dalla voglia di scrivere e dalla possibilità di avere qualche gioco “gratis” da recensire, risparmiando qualche decina di euro. Il problema, al di là dell’etica lavorativa, è che nessuno forma queste nuove leve a dovere. Anche perché nella maggior parte dei casi anche chi dovrebbe essere predisposto alla formazione, è a sua volta del tutto impreparato. Gli si insegna a impaginare gli articoli, a ottimizzare la visibilità per i motori di ricerca (SEO) e a scrivere in una forma corretta. E finché ci si limita ad assegnare una news o una guida, riadattate da qualche sito estero, la cosa può anche funzionare.
INSEGNARE A FARE CRITICA
Il problema nasce quando ci si trova a dover recensire i giochi, e per indirizzare nella stesura di un testo a tutti gli effetti critico, si fa affidamento alla struttura grafica-trama-gameplay. Una sorta di griglia ideale, vecchia ma sempre in voga, che porta a scomporre i videogiochi nelle singole componenti per tirarne fuori un voto mediato o sommato.
PERCHÈ PARLARE SOLO DEGLI ASPETTI OGGETTIVI, E DIMENTICARSI DI CIÒ CHE HA SIGNIFICATO L’ESPERIENZA?
Certo, il pubblico vuole quello, e per sopravvivere in un mondo povero come quello della Game Critic bisogna adeguarsi, lo capisco. Eppure, il ruolo della critica dovrebbe essere anche quello di formare il pubblico, di indirizzarne il giudizio, di fornirgli gli strumenti critici per analizzare con cognizione di causa ciò che si trova a giocare. Per approfondire lo stato attuale del giornalismo videoludico e cercare di inquadrare le diverse realtà che lo compongono e le possibili strade future, vi rimando al precisissimo articolo di Francesco Toniolo.
TRAMA O NARRAZIONE
Come si può, ad esempio, incanalare il giudizio su Breath of the Wild in una griglia grafica-trama-gameplay? Andrebbe spiegato al lettore che la “trama” in un videogioco è un concetto non lineare. La narrazione in un contesto interattivo diventa un complesso di avvenimenti previsti e imprevisti, spesso figli del gameplay stesso, difficili da analizzare come semplice trama. Il racconto di Breath of the Wild non è Link che riunisce i poteri dei guardiani per salvare la principessa Zelda, che potrebbe benissimo essere una classica storiella per bambini. È invece l’insieme totalmente casuale e soggettivo di avvenimenti che caratterizzano l’esperienza del singolo giocatore, che sceglie di fare una strada anziché un’altra, che incontra una disavventura, un ostacolo da superare, si perde lungo la via oppure va dritto alla meta. Una trama diversa per ogni giocatore, che colpisce ogni giocatore in modo diverso.

La struttura open world di Breath of the Wild serve a potenziarne l’impianto narrativo, non a inficiarlo.
Si potrebbe (o dovrebbe) spiegare al lettore il concetto di narrativa emergente, ossia appunto tutte quelle storie collaterali strettamente legate all’esperienza soggettiva del giocatore. Un tipo di narrazione tipicamente molto presente in titoli a mondo aperto (ma non solo), più o meno pensata dai designer del gioco, che predispongono il world building e il gameplay in modo tale che certe esperienze possano affiorare, a volte anche in modi imprevisti. Il critico di videogiochi può spiegare tutte queste cose, offrire a chi lo segue un punto di vista diverso, uno strumento per analizzare l’esperienza in modo specifico in relazione alle sue caratteristiche ludiche, anziché trattarla come il fratellino storpio del cinema. Oppure può limitarsi a dire che la trama di Breath of the Wild è banale e si tratta di un gioco tutto basato sul gameplay.
EDUCARE IL PUBBLICO
Il problema di fondo sta nel pubblico dei videogiocatori, che è sì variegato, ma nella sua componente maggioritaria fatica ancora a concepire il videogioco come tale se al suo interno non si corre, salta e spara in giro. Non per colpa sua, non solo per lo meno. La critica dovrebbe avere anche un valore didattico, quello di formare il pubblico affinché possa capire le opere e il loro messaggio. Insegnare al videogiocatore la capacità di analizzare i videogiochi al di là di una struttura schematizzata gameplay-grafica-trama. L’obiettivo è rendere il fruitore in grado quantomeno di comprendere ciò che non è immediato, o meglio ancora apprezzare.

What remains of Edith Finch racconta la ciclicità tra le generazioni della sfortunata famiglia Finch, legati alla casa come i Buendìa di Marquez lo erano al paese di Macondo (Cent’anni di solitudine).
Altrimenti vedremo sempre etichettare il Cent’anni di solitudine videoludico con l’etichetta dispregiativa di “Walking Simulator”, o una delle opere più coraggiose e segnanti degli ultimi anni come “Bartolini Simulator”. Dovremmo impegnarci ad aprirci, per parlare sia a chi ha voglia di ascoltare e scoprire nuove prospettive, sia prendendo per mano chi è chiuso nelle sue convinzioni. Troppo spesso invece si tende ad arroccarsi in un linguaggio elitario, parlando alla propria nicchia, raccontando il videogioco come qualcosa di esclusivo: se non riesci a coglierlo è per una tua mancanza di sensibilità. Forse per troppi anni si è dato ai lettori un certo tipo di minestra, a cui ormai siamo tutti abituati: chi scrive e chi legge. Io sono convinto che si possano e si debbano proporre analisi davvero critiche, intime e lente. E sono convinto che queste verranno recepite da un pubblico, se pensate e scritte per essere comunque alla portata di tutti.
si tende spesso ad arroccarsi, a parlare alla propria nicchia, a raccontare il videogioco come qualcosa di esclusivo. Non è questo che dovrebbe fare un’analisi davvero critica, intima e lenta
SLOW GAMING, SLOW CRITIC
Quasi tutti i critici italiani di videogiochi di cui ho letto opinioni si professano profondamente contrari all’oggettività. Tuttavia, la maggior parte di ciò che viene scritto dalla critica continua a basarsi sulla descrizione più o meno oggettiva di cosa è il videogioco. Si individua il genere, l’ambientazione di riferimento, le caratteristiche ludiche, la grafica, la trama (sempre rigorosamente intesa in senso classico). Non ci si sofferma quasi mai a raccontare al lettore l’esperienza personale del giocatore critico, provando a spiegare perché un videogioco ha toccato delle corde specifiche in quella specifica persona — o non lo ha fatto.

Senza la paura di perdere il treno dell’hype, tutte le incomprensioni tra pubblico e critica nel valutare Cyberpunk 2077 si sarebbero potute evitare.
La recensione si riduce, di fatto, a una guida all’acquisto, a un servizio che si cerca di propinare a dei consumatori. Inoltre, quello della Game Critic è un settore sempre di fretta: bisogna rispettare i tempi critici dettati dall’industria, ossia dai publisher, uscire in tempo per la scadenza dell’embargo con le recensioni, le anteprime, gli approfondimenti. E invece il videogioco, come tutti i mezzi di comunicazione, spesso ha bisogno di lasciare che il messaggio sedimenti. Sarebbe ora di smettere di esaurire tutta la produzione critica attorno a un titolo nel giro delle due o tre settimane che ne circondano l’uscita. Capisco l’esigenza commerciale che impone di arrivare in tempo, ma l’esigenza critica invoca almeno l’affiancamento di articoli che propongano punti di vista alternativi e approfonditi, personali e che si prendano i giusti tempi.
Una critica indipendente sia dai ritmi imposti, sia dalla forma classica, capace di raccontare i videogiochi come quello che sono: un mezzo che dipende dall’interazione e crea un interscambio di esperienze con il giocatore. Siamo quello che giochiamo, parafrasando, e questo lato umano del medium non viene quasi mai raccontato.
NON ESISTE LA CRITICA OGGETTIVA
Senza alcuna pretesa di insegnare il mestiere a nessuno, ma provando a offrire un esempio pratico, semplice e imperfetto, rimando aun articolo recente in cui ho tentato di mettere in pratica quello di cui sto parlando. Ho cercato di raccontare come un titolo atipico come Lake sia stato ai miei occhi un racconto legato a doppio filo con la provincia da cui provengo, e come questo abbia reso la mia esperienza personale unica ed emozionante.