Videogiochi e tutorial: tra semantica e semiotica

Spesso sottovalutati, spesso dimenticati, i tutorial sono capaci di regalarci uno sguardo direttamente nelle intenzioni e nel carattere delle loro opere. Proviamo, con qualche esempio, a capire come possano farci inquadrare un’opera e il suo linguaggio, anche a livello semantico.

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Giuro, nonostante il titolo che ho deciso di utilizzare, questo articolo non sarà pomposo, pieno di paroloni, accademico, difficile, noioso. Anche se, ammetto, mi diverte scrivere articoli pieni di paroloni (la tassonomia dei videogiochi ne è la prova lampante). La riflessione che mi ha fatto sedere stavolta a scrivere è però semplice e si lega a doppio filo con il titolo che ho scelto. Volutamente pomposo e persino arrogante, ha un effetto importante: vi dà – immediatamente – un’idea dello stile, del tono e del tema dell’articolo. Le ultime produzioni di Italo Calvino studiavano il rapporto tra le parole e i significati, tra i segni e i messaggi che i segni vogliono far passare. “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è tra le opere più particolari, belle e interessanti prodotte nel secolo scorso: a ogni capitolo un nuovo libro inizia, con il suo stile, il suo titolo, il suo “pseudo-autore”, le sue caratteristiche. Alla fine di ogni capitolo qualcosa porta il Lettore (il protagonista del libro) a dover iniziare il libro successivo.

A VOLTE I TUTORIAL SI DANNO QUASI PER SCONTATI, MA SONO A TUTTI GLI EFFETTI QUELLO CHE PER UN LIBRO È IL TITOLO

Tanti incipit, nessuna conclusione. In mezzo, il viaggio. In mezzo, tutti i titoli, che uno dopo l’altro creano costantemente nuove aspettative verso il lettore (il vero lettore), colui che fruisce l’opera. Cosa c’entra tutto questo con i videogiochi? E cosa c’entra con il titolo, alla fine dei conti? C’entra perché si lega a un elemento del videogioco che spesso diamo per scontato, a volte per inutile, e a cui prestiamo praticamente pochissima attenzione: il tutorial. Sono due gli scopi principali del tutorial: insegnare a giocare e creare un primo impianto di aspettative. Lo fa attraverso segni e parole, attraverso significanti e significati. Il tutorial è a tutti gli effetti un “titolo”, e se si inizia a guardarlo in quel senso cominciano a svilupparsi nel dettaglio quei concetti che separano un videogioco con un buon tutorial da un videogioco con un pessimo tutorial. Che separano il tutorial di Assassin’s Creed IV: Black Flag dal tutorial di The Witness.

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Iniziamo dal titolo di questo articolo: “Videogiochi e tutorial: tra semantica e semiotica” è un titolo pessimo. E lo è in base ai due scopi principali del tutorial definiti sopra. Leggerlo crea un primo impianto di aspettative che automaticamente esclude chi trova fastidioso o pesante un certo specifico registro di scrittura. Da un titolo del genere ci si aspetta di trovarsi davanti al primo di una serie di articoli di metalinguaggio videoludico (e magari lo è anche, eh) che analizza in termini accademici gli elementi focali del tutorial videoludico. Il registro, però, dà indicazioni estremamente specifiche: dà informazioni semantiche e pragmatiche, cioè come le frasi rappresentano un messaggio e come il contesto (la scelta di termini, la viscosità delle parole, il tema stesso) va a influire sull’interpretazione dei significati. Cosa separa il tutorial di Demon’s Souls da quello di Cuphead?

DEMON’S SOULS CI DÀ POCHISSIME INDICAZIONI PRIMA DI GETTARCI IN PASTO A UN BOSS CHE NON AVRÀ PIETÀ DI NOI

In Demon’s Souls il giocatore riceve pochissime indicazioni, tutte insieme, sui comandi di base, poi si trova davanti a un boss che presumibilmente lo ucciderà. Se mai il giocatore dovesse sopravvivere morirà pochissimi secondi dopo davanti a un drago. A quel punto, arrivato al Nexus, troverà tantissimi messaggi a terra lasciati dagli sviluppatori con messaggi stringatissimi che obbligano il giocatore a “memorizzare” tantissime informazioni tutte insieme, spesso persino criptiche (semantica). Le prime anime non consentono neppure di salire di livello, finché Phalanx non viene ucciso, e anche in quel caso le statistiche nei menu sono indicate da simboli (semiotica) che il giocatore deve imparare a conoscere prima di riuscire a destreggiarsi. Il giocatore, intanto, ha vissuto un tutorial devastante che vuole aggredire il giocatore e dargli un’aspettativa su quello che si troverà davanti all’interno del gioco: a quel punto sta al giocatore iniziare a rendersi conto di come certe modifiche al mondo di gioco siano legate a scelte del giocatore (pragmatica, davanti al danno effettuato, al danno subito, al Pure Black, a porte aperte e chiuse, alla tendenza del mondo). Ogni passo, anche a lungo andare, richiede uno sforzo di comprensione e assimilazione al giocatore che a tutti gli effetti alimenta un’aspettativa precisa. In altri termini, chi gioca a Demon’s Souls sa a cosa sta giocando, sa cosa può fare, sa cosa deve aspettarsi, e intanto impara a giocare seguendo quelle regole.

Il tutorial di Demon’s Souls è qualcosa che si sviluppa lungo intere sessioni di gioco, e nonostante imponga una memorizzazione rapida di certe azioni, il suo design fa sì che il giocatore alimenti l’aspettativa stessa del gioco, e intanto impari, passo dopo passo, a giocare. Che è esattamente quello che un tutorial dovrebbe fare. Morire significa conoscere un po’ di più il proprio nemico, testare e sperimentare significa capire non soltanto meccaniche e strategie di gioco ma anche il nucleo di design su cui si struttura tutta l’opera. La “difficoltà” del tutorial e delle prime ore è un passaggio essenziale e concettuale di conoscenza, e il tratto stilistico dell’autore (chi ha scritto il libro nella nostra similitudine) si manifesta nel “titolo” dell’esperienza. Segni e parole, descrizioni, concept, si iniziano a mostrare fin da subito, nel loro corpo, e acquistano significato in un processo semiotico di conoscenza.

CUPHEAD, O COME SBAGLIARE I TUTORIAL

E Cuphead invece? Ecco, il tutorial di Cuphead in alcuni aspetti è “simile” a quello di Demon’s Souls: anche lì la fase “tutorial” dura per una sezione ben più ampia del gioco rispetto a quella che ufficialmente è presentata come tutorial, e tenta di aiutare il giocatore ad abituarsi passo dopo passo a ogni meccanica, situazione e difficoltà. Il problema si nota però nel momento in cui ci si sofferma sulla natura del tutorial stesso. In Cuphead il tutorial “ufficiale” è sviluppato su una stanza di test, in cui vengono mostrati i tasti e il giocatore viene inserito all’interno delle meccaniche. Se questo tutorial risponde alla prima necessità (insegnare a giocare, seppure in un contesto diverso da quello reale del gioco) non risponde in nessun modo al secondo obiettivo dei tutorial: creare aspettative verso il giocatore. I primi minuti di Cuphead, al contrario di quanto succede in Demon’s Souls, non hanno carattere. A poco vale l’elemento stilistico grafico: Cuphead ha molto più di quello, e lo dimostra lungo le varie isole – soprattutto nella terza. Lo stesso concept di base del gioco (che è una boss rush prima ancora di essere un run ‘n’ gun) si manifesta poco efficacemente, o almeno meno efficacemente di una serie di input (limitatissimi) segnati a terra prima di affrontare un boss difficile nel gioco di From Software.

Il punto, qui, non è la presentazione in sé: la soluzione di Demon’s Souls è completamente inadeguata nella maggior parte dei videogiochi, ma funziona in quel gioco perché è la SUA soluzione. Al tempo stesso, il titolo che ho utilizzato per questo articolo è completamente inadeguato per il registro e lo stile che sto utilizzando, ma sarebbe perfettamente adeguato se avessi deciso di scrivere l’articolo in modo diverso. Certe scelte creano aspettative che si riflettono, di base, nel nucleo dell’esperienza: la scelta dei termini (che nel videogioco sono gli elementi base del gameplay) e dello stile (che nel videogioco sono le scelte di game design) permettono di osservare l’opera con una conoscenza dei segni e del loro significato.

SE IL MODELLO DI DEMON’S SOULS FUNZIONA, NON SI PUÒ DIRE LO STESSO PER CUPHEAD: TROPPO NETTO IL BALZO DI DIFFICOLTÀ FRA PRIMA E SECONDA ISOLA

C’è, chiaramente, un linguaggio comune a cui siamo abituati che fa sì che determinate scelte portino ad aspettarsi determinate altre scelte, ed è qui che molti sono capaci di distruggere le aspettative (The Stanley Parable, The Magic Circle, Pony Island), ma a volte un titolo e un tutorial sono semplicemente sbagliati. Tutta la prima isola di Cuphead è troppo facile per rappresentare il gioco, e non è completamente adeguata a preparare il giocatore: non insegna a giocare – il cambio di difficoltà tra la prima e la seconda isola è impressionante – e non crea la giusta aspettativa / attesa verso il giocatore. Insomma, sbaglia entrambi gli obiettivi che dovrebbe avere un tutorial. Goopy Le Grande, nello specifico, è l’esempio perfetto di come un “primo boss” non riesca a descrivere il tipo di difficoltà e di carattere che gli sviluppatori hanno inserito nella loro opera. Al di là della sorpresa tra fase 2 e fase 3, Goopy fa immaginare al giocatore un tipo di sfida legato più che altro al tempismo e non agli ostacoli che arrivano addosso al protagonista, e anche l’altro dei primi due boss disponibili (The Root Pack) è così semplice (non in termini di difficoltà ma di azioni richieste al giocatore) da non riuscire a prepararlo minimamente a cosa succederà dopo.

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Un problema diverso si sviluppa in Assassin’s Creed IV: Black Flag, che è uno dei migliori giochi della serie ma possiede un tutorial sbagliato sotto praticamente qualunque aspetto. In Black Flag esistono due tutorial: uno, pensato attraverso le missioni principali, che si sviluppa in modo coerente con la narrazione, e che impiega quasi metà gioco per concludersi; un altro, scritto, che si mantiene fisso per tutta la durata della partita attraverso l’HUD e l’open world offerto al giocatore. La semantica di Black Flag sfrutta due alfabeti (uno composto da frasi che descrivono le missioni, e uno composto da parole e simboli che descrivono l’azione dei singoli tasti) che però faticano a comunicare insieme. Il secondo alfabeto – che dovrebbe avere un ruolo di reminder verso le numerose azioni concesse al giocatore, spesso non navigato – è presente fin da subito in tutte le sue sfaccettature, e in numerose occasioni rende facilmente inutile il primo alfabeto, quello del tutorial propriamente detto.

C’È UN INEVITABILE SENSO DI DISCONNESSIONE QUANDO, DOPO AVER AFFRONTATO CHISSÀ QUANTI FORTI NELL’ESPLORAZIONE DELL’OPEN WORLD, BLACK FLAG RITIENE OPPORTUNO SPIEGARMI COME SI CONQUISTANO

È comunissimo, ad esempio, attaccare un forte durante i primi capitoli del gioco, ed è addirittura possibile attaccarli quasi tutti se si decide di affrontare il prima possibile l’open world: uno dei grandi punti di forza di Black Flag è la possibilità di scoprire il mare nei tempi che si vuole e quando si vuole, e non è indifferente la possibilità offerta da Ubisoft di affrontare quasi da subito ciò che si preferisce, con i propri tempi e le proprie priorità. Per questo stona tantissimo quando, dopo l’inizio del quinto capitolo, una delle missioni principali è il tutorial per attaccare i forti. La dissonanza non è soltanto extradiegetica tra giocatore e protagonista, ma interna all’opera stessa: stiamo spiegando come si attacca un forte a qualcuno che ne ha già attaccati molti.

Come ha fatto? Semplice, i tasti a schermo sull’HUD e gli indicatori di missione riescono, da soli, a rendere completamente inutili le missioni principali di tutorial che si sviluppano troppo a lungo e nei momenti sbagliati per riuscire a funzionare. E la cosa si estende alle battaglie navali, agli assassinii, e così via. Soprattutto, però, si estende a decine e decine di altri giochi che magari fanno bene tantissime cose ma si perdono, a livello semantico, semiotico ed educativo, in una delle loro componenti essenziali: i tutorial.

PIÙ DI UNA SEMPLICE INTRODUZIONE

Per questo, probabilmente, dovremmo iniziare a studiare molto più a fondo quei giochi che di semantica e nuovi linguaggi hanno costruito tutto il game design: i puzzle game. Lì, nei singoli dettagli e nel modo in cui le regole vengono spiegate al giocatore, diventa essenziale realizzare degli schemi di tutorial perfetti ed efficaci sotto ogni aspetto. Baba is You non funzionerebbe così bene se ogni mondo non utilizzasse i primi livelli (e alcuni livelli bonus) per creare una “rivelazione”, una “meraviglia” verso il giocatore, e The Witness sfrutta il concetto di stupore e di meraviglia per mantenere viva l’attenzione lungo un processo di conoscenza lungo decine di ore. Lo stesso Serious Sam: The First Encounter, di cui scrivevo qualche giorno fa proprio su queste pagine, abitua il giocatore livello dopo livello – e cattiveria dopo cattiveria – a capire cosa aspettarsi, a creare un processo di conoscenza. Lo fa senza prendere per stupido il giocatore, ma inserendo al momento giusto ogni nuovo elemento di conoscenza. Lo fa ricordandoci che quando ci sediamo alla nostra piattaforma di gioco e avviamo un’opera stiamo sviluppando (noi) un processo conoscitivo che ci permette di dare significato a simboli, segni, scelte di game design, che qualcun altro (gli sviluppatori) hanno inserito.

E così una frase in Baba is You assume un significato perché diventa gameplay, un riflesso in The Witness assume un significato perché nasconde un segreto ambientale, un punto vita in Serious Sam: The First Encounter assume un significato perché racconta di una trappola, un nemico che ci uccide con un nuovo attacco in Demon’s Souls assume un significato perché inserisce un nuovo “termine” al vocabolario dei pericoli. Perché, insomma, un segno assume un senso (semiotica) e diventa una parola di un linguaggio non scritto, a cui noi attribuiamo un significato (semantica). Certo, forse a volte sono semplicemente fatti male, come il titolo dell’articolo che avete appena letto, ma forse dovremmo iniziare a dare più peso a quei primi minuti, a quei tutorial che tanto spesso skippiamo. Forse hanno qualcosa di più da raccontarci che una semplice lista di comandi e situazioni. Forse, e ripeto forse, sono capaci di raccontarci il gioco, o parte di esso, prima ancora di averlo vissuto.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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