Videogiochi indie: un’allucinazione collettiva?

Ha ancora senso parlare di videogioco indie, oggi che tutti si sentono traditi da come il mercato abbia distrutto la poesia e il sogno? Esiste un punto di vista diverso? Proviamo a ragionare sul significato dell’etichetta, perché forse nasconde interpretazioni inaspettate.

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Abbiamo sbagliato tutti quanti. Tanti anni fa. Ci siamo convinti che bastasse utilizzare un termine facile per assicurarci che tutti capissero la stessa cosa. Abbiamo detto “quello è un gioco indie”, oppure “si sta sviluppando una scena indie”. Lo abbiamo fatto, in tutto il mondo, senza mai chiederci se tutti stessero interpretando allo stesso modo. In fondo era un termine che già utilizzavamo per la musica, per i film, per l’arte in generale: è ovvio che tutti sapessero di cosa stavamo parlando. O forse no. Come al solito è un problema di linguaggio. O meglio, di comunicazione. Come sempre siamo soltanto delle stelle nell’universo infinito, dei fari lontani che provano a comunicare pulsando senza mai riuscirci (grazie, To The Moon), perché abbiamo un vocabolario tutto nostro. E quindi qualcuno, con molta pazienza, deve provare a rimettere insieme idee, concetti, dubbi, paure, delusioni, premi, storia, nella speranza di ridare dignità a una definizione. O almeno di offrire un giusto elogio funebre a una parola che è invecchiata davvero male.

Questa riflessione critica nasce dalla lettura di mesi di articoli (in Italia e nel resto del mondo) che cercano di riflettere sullo stato dell’industria videoludica, sul modo in cui i videogiochi “indie” vengono trattati in occasione dei premi videoludici più importanti, sul prezzo, sulla grandezza dei team, sul modo in cui il marketing impatta sulla produzione di certe opere, sul modo in cui certi videogiochi “indie” hanno ottenuto finanziamenti, e così via. Un po’ ovunque il sentimento comune è lo stesso: il termine “indie” ha perso di significato, non riesce più a descrivere quello che era un tempo, è stato cannibalizzato dall’industria, ha perso il “sogno”, etc etc.

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È tutto vero, il termine “indie” ha perso di significato. Ma è anche tutto falso. I motivi non sono quelli: non riusciamo più a capirci sulla definizione di indie perché ognuno aveva la propria e il crescente aumento di produzioni indipendenti ha fatto sì che quella definizione non funzioni più. Dan Pearce, su IGN US, ha più o meno affermato che l’unico consenso collettivo che riusciamo ad avere sul termine è che “ci rendiamo conto che sia un indie quando lo vediamo”, in modo soggettivo ed estremamente poco preciso, ma è difficile non essere d’accordo con lui. Quando vediamo lo screen di un videogioco indie, il 99% delle volte “sappiamo” che è un indie.

COS’HANNO IN COMUNE UNDERTALE, KENA, THE WITNESS, CHILD OF LIGHT E DEATH STRANDING?

Perché? Cos’hanno di così unico, speciale e riconoscibile giochi profondamente diversi come Undertale, Kena: Bridge of Spirits, The Witness, Child of Light e Death Stranding? Sì, sono tutti indie, e quello che si è perso è il “nostro” significato. Quello che avevamo dato alla parola, sbagliando, quando abbiamo creduto che tutti capissero la stessa cosa. Ripartiamo da zero, cioè dalla definizione. Perché sta tutto lì, nel modo in cui abbiamo interpretato una semplice parola di cinque lettere. Non che la cosa mi stupisca eh – pensate a quanto è successo in migliaia di anni per la diversa interpretazione della parola “morte” o della parola “giustizia” – ma il motivo per cui nel titolo parlo di allucinazione collettiva è semplice: il videogioco indie non esiste. Esistono tanti “videogiochi indie” a seconda del significato che diamo al termine.

Questo non vuole essere uno di quegli articoli cerchiobottisti che vogliono fare tutti felici o scontentare tutti: voglio davvero stimolare una riflessione, e i giochi che ho citato sopra cercano di innestare un ragionamento. Se siamo tutti concordi nel riuscire a “riconoscere” un indie quando lo vediamo, ma contemporaneamente falliscono tutte le definizioni comuni (il budget per produrlo, il numero di persone nel team, l’assenza di un publisher esterno) cosa possiamo dedurne se non che quelle definizioni non sono la cosa di cui ci accorgiamo? E in fondo è anche abbastanza ovvio. Come può Gianmarco, che vive a Bologna, conoscere budget, numero di persone, publisher e qualunque altra cosa, nel momento in cui vede semplicemente uno screen o un video di un videogioco canadese e dice “ah è un indie”?

Abbiamo caricato a tal punto il termine “indie” di significati e di lotta contro “i soliti giochi delle grandi aziende” che abbiamo perso per strada l’unico approccio critico che funziona in una platea così eterogenea e ramificata: la ricerca dell’elemento identitario. Un aiuto in questa ricerca ci viene da Handmade Pixels, un libro del 2019 di Jesper Juul, game designer e ludologo danese. Lungo le sue riflessioni afferma che sia impossibile dare una definizione non soggettiva del termine “indie” e che non esistano regole universali per separare un indie da un non-indie, ma è il modo in cui arriva a questo risultato a essere interessante, perché riesce esattamente a porre la questione dal punto di vista che sta mancando nella discussione. Il punto, cioè, che identifica esattamente quello screen o quel video del videogioco canadese e fa affermare “ah è un indie” a Gianmarco da Bologna. Juul concentra l’attenzione, esattamente come sto procedendo io, sulla definizione. Sul termine “indie”, che tutti identifichiamo – a ragione – come “indipendente”.

Qui le cose iniziano però a farsi complesse, perché è qui che il senso comune inizia a darci le risposte sbagliate. Cameron Kunzelman, discutendo il libro di Juul su VICE, pone la questione attraverso tre “categorie ideologiche” di indipendenza: economica, estetica e culturale. Juul, in modo più ampio, cerca di denotare le diverse sfaccettature attraverso cui un’opera possa essere in qualche aspetto indipendente in confronto a quello che è il mainstream e che la cultura pop si aspetta. Disco Elysium, che Kunzelman prende ad esempio nel suo articolo, è indie per l’aspetto economico legato al suo sviluppo, ma lo è anche – e soprattutto – per la scelta di creare un contesto artistico unico e perché i suoi creatori hanno urlato “Marx” e “Engels” mentre ritiravano il premio ai TGA 2019, mostrando la forza di un’indipendenza culturale all’evento che più rappresenta il mercato “mainstream”.

CHI HA MAI DETTO CHE L’INDIPENDENZA TANTO ACCLAMATA DEBBA RIGUARDARE NECESSARIAMENTE I PUBLISHER?

Se proviamo a guardare alla scena indie in questo senso, però, acquistiamo una nuova luce sulla definizione e sulla categorizzazione: chi ha detto che l’indipendenza tanto acclamata debba riguardare necessariamente quella dai publisher e da decisioni esterne alla creatività degli sviluppatori? Esiste indubbiamente questa forma di indipendenza, ed è anche quella che per certi versi ha spinto di più il sogno romantico dell’indie. Un gioco che ci godiamo esattamente come era stato pensato, fuori da logiche di mercato, magari sviluppato in uno scantinato da qualcuno che voleva farlo da una vita: il sogno è romantico per definizione – un modo di fare i videogiochi che pensa espressamente alla visione dell’autore, e a nient’altro –, e acquista ancora più valore quando si pensa che quel videogioco possa essere una bandiera contro gli schemi del capitalismo, contro la vendita stessa di queste opere interattive, contro l’arricchirsi delle grandi aziende. Una bandiera che spinge il videogioco come arte, perché siamo tutti più felici quando riusciamo a convincerci che sia arte (e non dico che non lo sia, non è quello il punto).

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Il punto – che si sviluppa facilmente dalle considerazioni di Kunzelman – è che esiste una cultura mainstream attorno alla quale riusciamo a riconoscere quello che è il “gioco standardizzato” perché è quello che il mercato ci ha abituato ad aspettarci. È indubbio che quello standard sia necessariamente connesso alle leggi di domanda e offerta, e quindi alla necessità delle grandi aziende di capitalizzare, ma “indie” non è tutto quello che va contro “i soliti giochi delle grandi aziende”. È invece tutto quello che va contro “i soliti giochi”. Indie è l’indipendenza artistica, culturale, ludica, economica, estetica, filosofica, rispetto al mainstream. Non è tutte queste insieme, però. È anche una soltanto di queste, se risulta sufficientemente predominante nella fruizione o nella realizzazione dell’opera. Gianmarco da Bologna – e noi con lui – è capace di riconoscere un indie quando lo vede perché c’è qualcosa in quel prodotto che gli fa pensare di non essere davanti allo standard. In un mercato mainstream che punta al fotorealismo, è indie un’estetica cartoon, un’estetica “anni ‘30”, una grafica pixellata, un approccio grafico con un’identità unica. Si tratta di indipendenze artistiche ed estetiche, in questo caso.

Un videogioco può trasmettere un messaggio completamente diverso da quello che il mainstream si aspetta – sto pensando a Milk inside a bag of milk inside a bag of milk, con la sua indipendenza culturale, ad esempio. Oppure può creare una sperimentazione ludica che si riflette su un gameplay che rompe tutti i ponti con lo “standard” – Death Stranding, Genesis Noir, giusto per citarne un paio che possiedono indipendenza ludica. In un mercato in cui nel 2014 Ubisoft sta cercando di imporre uno standard per gli open world, è indie la loro scelta di realizzare Child of Light, ed è indie la scelta di Arkane Studios di realizzare un’esperienza come Prey in un mercato dominato dai giochi multigiocatore. E poco importa, onestamente, di quanto i progetti che chiamiamo indie possano nascondere dei tentativi di indiewashing, come ha scritto Andrea Scibetta recentemente, di quanto siano realizzati a tavolino per avvicinare un diverso target di pubblico, o di quanto siano finanziati (da publisher o attraverso acquisto di esclusive temporali) da grandi aziende.

Indie è un concetto slegato dal gioco in sé: è il modo in cui noi “pensiamo” al gioco, il modo in cui lo recepiamo. Il modo in cui è differente dallo standard del momento e per questo riusciamo a identificarlo. A trovare la sua unicità, la sua particolarità. Ed è questo che Dan Pierce nota quando si rende conto che abbiamo un consenso collettivo sul termine “indie” senza riuscire a descriverlo. È questo che fa sì che, come giustamente nota Juul, non esista un modo di separare un indie da un gioco che indie non è. La nostra sensazione, la nostra capacità di “pensarlo diverso”, è troppo soggettiva, legata al momento e personale per poter dare un consenso univoco.

L’ETICHETTA INDIE SIGNIFICA TUTTO E NON SIGNIFICA NIENTE, È UN’ALLUCINAZIONE COLLETTIVA, L’ILLUSIONE DI UN MODO DIVERSO DI FARE I VIDEOGIOCHI

In altri termini, l’etichetta “indie” significa tutto e non significa niente. È un’allucinazione collettiva, un tentativo di riuscire a credere che siamo capaci di riconoscere un “diverso modo di fare i videogiochi” che sia univoco. Non lo è, e anzi è un bene che sia così ramificato ed eterogeneo. Il motivo per cui oggi, nel 2022, ci stiamo rendendo conto che quel nome non va più bene è che ci sono così tante produzioni che urlano la loro indipendenza (culturale, artistica, storica, economica) da farci rendere conto che le produzioni che chiamiamo “standard” stanno venendo completamente annientate da un modo fresco e creativo di fare i videogiochi. Annientate da videogiochi che hanno personalità, e che oggi vediamo sbucare da tutte le parti. Videogiochi che ci ricordano che la creatività non ci sta abbandonando. Che abbiamo bisogno degli “indie”.

È il termine sbagliato perché semplicemente noi non riusciamo a interpretarlo così, perché gli abbiamo dato altri significati che non funzionano più. Che muoia allora, e che questo sia un elogio “funebre”: che il videogioco “indie” esista per sempre, che ci dia innovazione, idee e concetti. Che mostri indipendenza culturale, artistica, ludica. Che lotti contro gli standard. Che faccia crescere il medium. Che ci ricordi che abbiamo bisogno di lui. In qualunque modo decideremo di chiamarlo, d’ora in poi. Ripartiamo da qui. Possiamo farcela.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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