Nel mondo dell’intrattenimento, avere a che fare con un franchise leggendario le cui prime iterazioni hanno segnato il loro nome nella storia stessa del suo media, spesso definendone un genere di esso particolarmente influente, significa avere a che fare con un brand che ha saputo affrontare il test del tempo rendendosi così immortale e diventando uno degli esempi primari del media stesso a cui appartiene. Quando questo succede, tutti gli elementi che compongono questi film, libri, brani, giochi o altro diventano nella nostra mente parte integrante della loro opera di appartenenza, spesso venendo spogliati del contesto storico e culturale che ha giocato un ruolo fondamentale nel renderli ciò che sono.
Un esempio chiaro di questo fenomeno lo possiamo trovare nella saga di Star Wars, oggi più viva e prolifica che mai (il che non sempre è un punto a suo favore, sfortunatamente) la quale affonda le sue radici in innumerevoli fattori culturali tipici degli anni in cui fu realizzata la trilogia classica: l’era d’oro della fantascienza cinematografica, lo sdoganamento di alcuni cliché narrativi all’epoca molto comuni e molto richiesti e l’apertura verso influenze originariamente associate a altri generi. In sunto, quando Star Wars è uscito, ha saputo capitalizzare su molte tendenze tipiche dei suoi anni creandosi una nicchia di mercato fondata su ciò che il pubblico chiedeva all’epoca; oggi invece il brand di Star Wars è talmente affermato da non aver bisogno di introduzioni, tali sono le schiere di fan bramosi di ulteriori contenuti che sanno perfettamente cosa aspettarsi.Il contesto storico e sociale è quindi il grande “outsider” che contribuisce in maniera imprescindibile alla creazione di una leggenda dell’intrattenimento, ma che è destinato quasi sempre a venire dimenticato quando questa si afferma in maniera indelebile nella storia del suo media, attraversando varie epoche. Questo fenomeno lo possiamo ritrovare anche nel mondo del gaming, dove il susseguirsi di ere, tecnologie, generazioni e piattaforme ha dato vita a un costante rinnovo di brand e saghe che hanno saputo imporre il loro nome su alcune aree della storia stessa del media videoludico: sto parlando di come, ad esempio, Sonic sia non solo l’icona di Sega e del platforming a 16 bit ma anche degli anni ‘90, con i suoi colori sgargianti e quell’aria di superiorità tipica del voler essere “cool” in quegli anni.
Ma facciamo un passo indietro e andiamo a vedere da vicino quale contesto socioculturale ha fornito il terreno fertile per dare vita a due delle più famose icone del gaming mondiale, nate in anni ormai così lontani dai nostri, ma che inevitabilmente chiunque conosca il videogioco ha visto o sentito nominare almeno una volta. Partiamo da Space Invaders, storico shoot em up a tema fantascientifico arrivato sul mercato inizialmente sotto forma di cabinato coin-op arcade nel 1978 pubblicato da Taito.
Il gioco ci mette nei panni di un non meglio precisato cannone laser, ultimo baluardo di difesa del nostro pianeta contro una schiera di astronavi aliene provenienti dal cielo. Originariamente i nemici dovevano essere umani, ma Taito decise di cambiarli in alieni sia perché pensarono che il messaggio di sparare a altri esseri umani potesse risultare controverso, sia perché il tema fantascientifico andava forte in quegli anni, grazie anche all’uscita al cinema proprio di Star Wars l’anno precedente.
Il design degli invasori spaziali è dichiaratamente ispirato agli alieni de La Guerra Dei Mondi di H.G.Wells, libro che Tomohiro Nishikado, autore del gioco, amava leggere da ragazzo, reso poi ancora più popolare dall’adattamento cinematografico del 1953. Il successo del gioco in Giappone fu tale (si dice) da causare una scarsità e conseguente aumento della produzione delle monete da 100 yen; l’anno seguente la Midway portò il cabinato nelle sale giochi americane e infine nel 1980 la Atari ne realizzò la prima conversione casalinga uscita su Atari 2600.
Una popolarità di questa portata colse di sorpresa tanto il mercato quanto il suo creatore, il quale a seguito di feedback inizialmente negativi da parte dei suoi colleghi alla Taito, impiegò oltre un anno di lavoro nella realizzazione dei componenti hardware necessari a fare funzionare il gioco. Negli anni successivi le risorse impiegate da Taito per mantenere il supporto dell’hardware del gioco, la cui richiesta non accennava a calare, causò la perdita della posizione di punta per la casa produttrice stessa nella categoria delle compagnie all’avanguardia nello sviluppo di componenti hardware per giochi Arcade. I programmatori coinvolti nello sviluppo di videogiochi alle soglie degli anni ‘80 erano cresciuti negli anni d’oro della fantascienza cinematografica e non, l’intrattenimento era pieno di astronavi, alieni ed eroi spaziali di ogni tipo, era quindi abbastanza prevedibile che i temi più comuni per il gaming di quegli anni fossero di natura prevalentemente fantascientifica. Finalmente si potevano emulare le gesta di eroi e salvatori vari, la quasi totalità dei quali vivevano storie e ambientazioni pensate per un pubblico maschile. Il fatto stesso, poi, che l’intrattenimento elettronico fosse per l’epoca qualcosa di nuovo e tecnologicamente all’avanguardia per i tempi lo faceva sposare alla perfezione col concetto di fantascienza. Era un binomio naturale.
Nel 1980 però un nuovo fenomeno videoludico era destinato a lasciare il segno nella storia del gaming per sempre: La Namco avrebbe lanciato sul mercato arcade un gioco che andava apertamente in controtendenza con quanto detto fin ora: niente machismo intergalattico, niente guerre, nessuna simulazione di conflitto. Si trattava stavolta anzi di un titolo allegro, colorato e spensierato nei toni e nell’aspetto: il suo titolo sul mercato locale era Puck Man, dal giapponese “paku paku” equivalente del nostrano “gnam gnam”, in occidente sarebbe arrivato con il nome di Pac-Man.
Toru Iwatani e il suo team di 9 persone iniziarono lo sviluppo del gioco nel 1979 partendo proprio dall’idea di creare un titolo colorato e allegro che potesse fare appello al pubblico femminile e che potesse avvicinare donne, bambini e coppie alle sale giochi: luoghi fino ad allora visti come sordidi, potenzialmente pericolosi e popolati esclusivamente da maschietti.
La forma dell’iconico personaggio fu scelta basandosi sulla forma di una pizza privata di una fetta, i bonus a forma di frutta erano basati sulle icone presenti nelle più comuni slot machines e gli avversari da evitare si decise sarebbero stati dei fantasmi, così come erano stati usati anche in Cutie Q, precedente titolo sviluppato da casa Namco e ispirandosi anche alla popolarità della serie a cartoni animati Casper. Si decise inoltre anche di introdurre l’uso di power up temporanei che permettessero al nostro eroe di divorare i fantasmini, invertendo le parti tra predatori e preda: una dinamica ispirata ai cartoni animati di Braccio di Ferro.
Si trattava, come detto in precedenza, di una scommessa, per questo motivo inizialmente non furono prodotti molti cabinati di Pac-Man e il successo iniziale fu contenuto. Si era scommesso non su un mercato preesistente e con delle tendenze già affermate, ma sulla possibilità e la speranza di creare e fidelizzare un mercato nuovo, un progetto che anche nella più rosea delle prospettive avrebbe richiesto tempo. E questo fu esattamente quello che successe: nel tempo e anche grazie alla distribuzione internazionale sempre ad opera di Midway, Pac-Man è diventato non solo il simbolo della sua era e della prima espansione alle masse del mercato videoludico ma è, a oggi, per molti il simbolo stesso dell’intera categoria del gaming.
Ed è così che due eterne leggende del gaming sono nate in tempi e luoghi così vicini tra loro ed entrambe figlie di ciò che il proprio contesto storico offriva, uno abbracciando in pieno la “tendenza” dei suoi anni e l’altro avvertendo il vuoto che questa tendenza creava e vedendo in essa una opportunità. Molti altri casi analoghi si sono susseguiti negli anni e hanno definito l’industria videoludica nelle generazioni che sarebbero seguite, diventando delle pietre miliari che avrebbero segnato il corso della storia del media.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.