L’età dell’oro degli strategici in tempo reale – Parte prima

Alcuni giorni fa, ho dato una rilettura a uno speciale in sette parti pubblicato su Frequenza Critica, intitolato “Per una tassonomia videoludica intelligente”. Consiglio a tutti voi lettori di TGM di leggere questo speciale, non solo perché mi ha fatto scoprire una nuova parola come tassonomia o perché è stato scritto dal nostro Dama, deus & dominus di Frequenza Critica; ma perché è un’interessante riflessione sulla difficoltà odierna di poter categorizzare i videogiochi tanto in un contesto sincrono quanto diacronico.

strategici in tempo reale

Durante questa rilettura, scattò una riflessione di come in un lontanissimo 199x, pensavo ingenuamente che nel 2022 avrei giocato a un Age of Empires XXIII o a un Baldur’s Gate 12 o a un Half-Life 3. Pensavo che gli unici cambiamenti dell’industria videoludica sarebbero stati esclusivamente sul piano tecnologico tra nuovi motori grafici, intelligenze artificiali e al massimo qualche marchingegno hardware nuovo. Mai e poi mai, avrei pensato che un determinato tipo – non uso per ora ancora la parola genere – mutasse completamente o addirittura scomparisse: i tipi erano eterni nella mia immaginazione ed eventuali loro deviazioni sarebbero state solo temporanee eccezioni.

Un qualcosa di errato e infantile: mai avrei pensato che diversi sviluppatori sarebbero diventati veri e propri monoliti industriali in grado di spendere e di guadagnare milioni e miliardi di dollari; mai avrei pensato che l’industria videoludica si sarebbe integrata perfettamente con le altre industrie mediatiche; mai avrei pensato alla nascita, trasformazione e addirittura scomparsa di interi generi videoludici, di franchise (specialmente nipponici) che si riciclano in mobile-games con le crudeli meccaniche gacha; di avventure grafiche trasformate in film interrativi o forse in librogame interattivi in tre dimensioni; di picchiaduro che abbandonati i cabinati sono oramai il titolo di punta per le competizioni online dove l’annuncio di un nuovo personaggio è pubblicizzato come un gender reveal party nel più barocco dei locali dell’area vesuviana, di titoli AAA+ che si fondano quasi principalmente su campagne di public relations, souls-like su souls-like, no more FIFA from EA.

Uno dei tipi – generi che mai mi sarei aspettato di veder totalmente trasformato o addirittura ridimensionato è quello dei Real Time Strategy, per gli amici RTS; soprattutto dato che in quel 199x e vicino 200x, questo genere viveva una vera e propria età dell’oro con numerosi titoli pubblicati. Non mi resi conto che quell’età dell’oro nascondeva in sé i semi della trasformazione (o della decadenza, se vogliamo essere pessimisti) pronti a sbocciare all’incirca un cinque – sei anni dopo. Un’età dell’oro di cui voglio narrarvi provando a individuare i diversi fattori che portarono alla trasformazione totale di questo genere.

I TRE MOSCHETTIERI

Primo gennaio dell’anno 2000. È passato più di un anno da quando Blizzard ha pubblicato Starcraft, oramai il principale RTS online grazie alla piattaforma di Battle.net, finalizzata a facilitare il gioco online attraverso un’interfaccia intuitiva e la garanzia di un ambiente protetto senza preoccuparsi di cheater o di troll. Microsoft ha pubblicato Age of Empires II da un paio di mesi, il quale immediatamente si impone come il RTS per eccellenza grazie a un game design sopraffino caratterizzato principalmente da meccaniche facili da imparare, ma mai superficiali; fazioni tanto differenziate quanto equilibrate tra loro, cinque campagne in grado di far passare diverse ore incollate al PC e soprattutto la promessa di una corposa espansione (The Conquerors, che uscirà nell’estate del 2000). Infine, tutti aspettano il secondo capitolo di Command & Conquer: Red Alert di Westwood Studios, sebbene Tiberian Sun pubblicato due anni prima non abbia tradito le aspettative, dimostrandosi un degno successore dei titoli precedenti e di quella tradizionale e dominante idea di RTS iniziata con Dune 2 in quel lontano 1992.

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Dune 2 è spesso stato indicato come il primo tra gli strategici in tempo reale distinguendosi dai suoi contemporanei tra titoli a turni o pacifici city-builders.

Se questo fosse un articolo dedicato al puroresu, non avrei problemi a chiamare Starcraft, AoE II e Red Alert 2 i tre moschettieri degli strategici in tempo reale (e implicitamente la generazione precedente, ossia Warcraft 2, AoE I e Red Alert). Limitiamoci a quella dominante e tradizionale idea di RTS incarnata dai titoli della Westwood, provando a individuare le caratteristiche proprie di questo genere, oltre a quello canonico e ovvio delle azioni del giocatore in tempo reale.

  • Un equilibrio tra l’aspetto ludico macro e micro. Il primo formato principalmente dalla costruzione degli edifici, la gestione delle risorse disponibili e lo sviluppo di un eventuale albero tecnologico finalizzato al potenziamento dei mezzi a disposizione del giocatore. Il secondo formato dalla gestione delle singole unità prodotte, dalla raccolta di eventuali risorse e lo scontro con i propri avversari.
  • L’obiettivo principale del giocatore è quello di difendersi dagli avversari attraverso il controllo delle principali fonti di risorse, quasi sempre esauribili. Attenzione! Non attaccare o distruggere, ma difendersi, perché i RTS propongono diverse condizioni di vittoria di uno scenario che non si limitano alla distruzione dell’avversario, ma anche alla raccolta di un determinato numero di risorse oppure la costruzione di uno o più particolari edifici. In aggiunta, il giocatore non è solo opposto dall’avversario, ma può essere opposto anche a fattori incontrollabili al quale si può solo resistere e non controllare come lo scorrere del tempo o un agente distruttivo delle risorse o dell’area di gioco.
  • La presenza di diverse fazioni di gioco che si distinguono ovviamente sul piano grafico, ma anche su quello ludico: implicitamente attraverso valori quantitativi diversi per lo stesso tipo di unita o esplicitamente come la presenza di unità uniche. Lo scontro tra unità è spesso basato su un semplice meccanismo carta-sasso-forbice, dove un’unità è avvantaggiata rispetto a un’altra e svantaggiata rispetto l’altra.

Su questi tre fattori, in quel lontano periodo che va dal 1995 e del 2005 tanti altri sviluppatori provarono a ritagliarsi la propria fetta di mercato oscillando tra l’innovazione di tali meccaniche o il tentativo di creare dei veri e propri cloni. Questo era in parte permesso anche da una diversa struttura dell’intera industria videoludica, formata dalle ovvie mastodontiche case di sviluppo come Microsoft ed Electronic Arts (la quale aveva Westwood tra le sue file), ma soprattutto da una vera e propria classe media di sviluppatori, privi di grandi risorse finanziare, ma in grado di pubblicare titoli che potevano provare a gareggiare con questi colossi. Un qualcosa di diverso da oggi, dove a mio parere (lieto di sbagliarmi) c’è una netta separazione tra i big guys e una lunga serie di sviluppatori minori (spesso indie) privi di quelle risorse finanziare in grado di poter competere. Brutalmente, una piccola casa videoludica bulgaro-svedese-uzbeka che sopravvive tra piattaforme di finanziamento, fondi statali ed europei e una gestione certosina delle proprie risorse, mai potrà competere con il colosso americano, nipponico o polacco spesso finanziato dal governo. Se qualcuno mi parlasse di classe media videoludica, mi verrebbero in mente in nomi di SNK, ma questa è più da considerare una nobile decaduta, o Deep Silver e Haemimont Games, forse retaggio di un passato remoto (beh, remoto, dieci anni fa).

CLONI SULLE SPALLE DI GIGANTI

Come differenziarsi da quei tre gran titoli? Come ritagliarsi quella fetta di mercato? Innovare o clonare? Tagliare delle meccaniche ludiche per potenziare altre? Puntare sull’aspetto narrativo o sulla varietà delle situazioni proposte al giocatore? Macro o micro? Proporre la propria piattaforma online? Ogni sviluppatore diede la propria risposta (e noi vedremo alcune di esse), ma a un certo punto anche quei Blizzard, Microsoft e EA/Westwood dovettero dare la loro, e cercare di superare quell’equilibrio imposto con quei titoli di quel lontano 1998/2000. Solo Blizzard riuscì a superare la sfida, arrivando non solo a dominare il mercato online con Warcraft 3 e Starcraft 2, ma addirittura a creare un vero e proprio genere, quello dei MOBA (che in verità fu creato inconsapevolmente, e che poi diverrà dominio di altre case, e cioè Valve e Riot Games). Microsoft riuscì a creare un ottimo Age of Mythology e un buon, seppur inferiore ai suoi predecessori, Age of Empires 3. Westwood? Beh, la montagna dorata di EA partorì diversi topolini come i due Generals e Red Alert 3, che dimostrarono come il genere degli RTS fosse entrato in una fase di declino o semplicemente che erroneamente quell’idea di RTS non fosse eterna ed era destinata a soccombere a nuove idee ludiche. Ma limitiamoci ai cloni, veri e propri RTS che provavano a copiare la strada di quei titoli provando a inserire minime modifiche alle meccaniche ludiche puntando su un’ambientazione unica o semplicemente sul canonico squadra che vince non si cambia.

Le stesse Electronic Arts e Microsoft proposero i loro “cloni”: Emperor: Battle of Dune, tentativo di svecchiare quel primigenio Dune 2; Star Wars: Galactic Battlegrounds, ossia un Age of Empires 2 nell’universo di Star Wars.

Primo titolo in mente? Tzar: The Burden of the Crown, primo titolo dei bulgari di Haemimont Games, pubblicato nei primi mesi del 2000. Questo titolo fu un successo commerciale in Italia e in Spagna grazie al prezzo basso proposto dai distributori di FX Interactive, ed era un vero e proprio clone di Warcraft 2 con un pizzico di AoE senza nessuna grande novità ludica, ma da buon clone garantiva diverse ore di divertimento al giocatore. Altro clone era il secondo capitolo di Outpost (Outpost 2: Divided Destiny) di Sierra del lontano 1999. Sebbene il punto di riferimento di questo titolo fosse Red Alert, Outpost 2 presentava un buon motore grafico per l’epoca con delle piccole chicche come il dettaglio dei movimenti dei veicoli e la presenza di un fattore esterno come ostacolo per il completamento degli scenari della campagna. Oltre alla fazione avversaria, il giocatore doveva destreggiarsi tra terremoti e lava o una nube virale la quale rendeva inutilizzabile (e tossica) parte della mappa, ma che non poteva essere fermata. Più che difendersi, il giocatore doveva gestire le poche risorse a propria disposizione con attenzione certosina evitando sprechi inutili e finalizzandosi al raggiungimento dell’obiettivo (Raccolta di risorse o costruzione di un particolare edificio). Altra piccola aggiunta era che tutti gli edifici dovevano essere connessi tra di loro attraverso dei tunnel; un qualcosa di simile fu presente in Perimeter (2004) dei russi K-D lab, dove la connessione tra gli edifici garantiva un vero e proprio perimetro invalicabile dagli avversari. Connessione garantita dall’unica risorsa disponibile.

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Meccanica particolare di Perimeter era la terraformazione dello scenario, così da permettere la costruzione delle strutture. Altra meccanica era la costruzione dell’unità avanzate, fondate sulla fusione di quelle base.

ROBOTTONI, OSSIA METAL FATIGUE (2000)

Primo titolo che scelgo come esempio perfetto di quest’età dell’oro dei RTS è Metal Fatigue dei californiani di Zono, forse l’unico loro grande titolo. Metal Fatigue è l’esempio di quel tentativo da parte degli sviluppatori di differenziarsi dai tre moschettieri proponendo piccole innovazioni ludiche, ovviamente senza allontanarsi troppo dai capisaldi fondamentali. Metal Fatigue è ambientato in un futuro lontano e che richiama al mondo dei robottoni nipponici, E vede due principali innovazioni: il robottone ossia il combot, e la necessità di gestire tre livelli di mappa. Il combot è un gigantesco mecha più forte delle canoniche unità di combattimento date le sue gigantesche dimensioni, necessità di un pilota (unità a parte, addestrata in un particolare edificio) ed è componibile da quattro parti: torso, braccio destro e braccio sinistro, gambe.

LA PERSONALIZZAZIONE DEI COMBOT AGGIUNGEVA UN ULTERIORE LIVELLO DI PROFONDITÀ A METAL FATIGUE

L’idea di assemblare le unità con diverse componenti non è propria di Metal Fatigue, ma è presente in altri titoli che citerò successivamente; ma la trentina di componenti per i nostri combots erano nettamente differenziati tra katana, scudi, motoseghe, cannoni al plasma, lancia missili, jetpack o sistemi di occultamento, permettendo di costruire il proprio combot in base alle nostre esigenze. Diverse di queste componenti sono esclusive per ognuna delle tre fazioni e possono essere recuperate mutilando letteralmente il combot avversario o trovandole in giro (come le potenti componenti aliene). Il giocatore nella costruzione del combot poteva puntare su un combot flessibile che poteva volare, su uno specializzato in funzione anti-aerea oppure per incursioni veloci grazie al sistema di occultamento o uno specializzato nella mutilazione dei combots avversarli e nel recupero di altre componenti grazie all’utilizzo di armi affilate. Altra caratteristica unica era la presenza di tre mappe contemporanee: oltre al livello-terra classico, c’era il cielo con le sue strane minuscole piattaforme metalliche adatto all’installazione di pannelli solari e teatro di incredibili combattimenti aerei; e il sottosuolo da scavare con una particolare unità e inaccessibile ai nostri combot.

Screenshot dalla prima missione della prima campagna di Metal Fatigue. Missione presente nella demo.

Ora vi domanderete perché questo titolo non raggiunse il successo di quei tre moschettieri? Uno potrebbe limitarsi a un canonico “mancò la fortuna, non il valore”, purtroppo il problema era che dietro a quelle due interessanti meccaniche ludiche c’era una base superficiale con diversi problemi di bilanciamento. Il controllo delle minuscole piattaforme in cielo garantiva la vittoria attraverso l’installazione di numerosi pannelli solari, risorsa infinita diversa dalla esauribile lava. Il campo visivo delle unità nel sottosuolo spesso non considerava gli ostacoli come pareti inaccessibili o non scavate per la loro linea di fuoco: le unità di artiglieria potevano bombardare senza problemi una base avversaria visibile ma non accessibile. L’Intelligenza Artificiale era basilare e gli scenari delle tre campagne erano troppo facili (diamine, anche io, che non sono un cavallo di razza, ho concluso queste gioco), le mappe per lo skirmish o per le battaglie online poco ispirate e divertenti. L’aspetto narrativo e quello grafico erano mediocri, se si escludono i combot delle tre fazioni, i quali richiamavano rispettivamente i mecha anni 80, Gundam e uno pseudo Evangelion. La quarta fazione, ossia quella aliena, era stata scarsamente implementata; fazione finalizzata a creare un avversario difficile da sconfiggere dato i valori di attacco e di difesa elevatissimi. Tutti fattori che minavano la longevità e il successo. Per uno scherzo del destino, i californiani di Zono proposero un RTS esclusivo per le console di settima generazione, ossia Aliens Versus Predator: Extinction (2003), ma questo titolo fa parte di quei tentativi di differenziazione fondato sull’eliminazione del fattore macro, ossia il base builiding.

VARIARE L’ESPERIENZA: ASSEMBLARE O ESTENDERE?

Metal Fatigue non fu ovviamente l’unico RTS a proporre la possibilità di assemblare le proprie unità con diverse componenti, peculiarità di tutti quei titoli ambientati nel mondo contemporaneo o in un futuro remoto. Warzone 2100 (1999) degli statunitensi di Pumpkin Studios e Earth 2150 (2000) dei polacchi della TopWare Programmy sono classici esempi. In particolare quest’ultimo titolo, parte di una trilogia, presentava tre fazioni totalmente distinte che spingevano il giocatore ad adattare la propria strategia di combattimento: dalla fazione classica con lenti carri armati e miniere, passando per quella dotata di mecha e di una sorta di piattaforma per teletrasporto, passando infine per una futuristica dotata di cannoni a plasma e di un unica mega struttura trasportabile da una parte dell’altra della mappa. Strategico ostico e difficile per l’epoca, con una particolare idea di campagna dove gli scenari non erano sequenziali ma decisi in base all’esito di quello precedente. Il giocatore poteva modificare l’intelligenza artificiale dei propri avversari in tempo reale attraverso l’inserimento di propri script.

Accenno brevemente a Impossible Creatures del 2003 dei canadesi di Relic Entertainment: questo strategico ispirato al “The Island of Doctor Moreau” di Wells, vede la possibilità di poter assemblare animali mostruosi tra tigri-squali-scorpioni o più canonici uomorsoomaiale.

Gli statunitensi di Stainless Steel Studios con Empire Earth (2001) proposero un semplice modo per garantire varietà all’esperienza del giocatore, ossia allungare incredibilmente il periodo temporale del gioco permettendo al giocatore di guidare una civiltà dalla preistoria fino a un lontano futuro. Se sulla carta questa semplice cosa sembrasse una grandissima innovazione, sul piano pratico non era cosicché dato che tra arciere e carro armato le differenze pratiche erano minime perché i combattimenti erano sempre fondati su quel classico carta-sasso-forbice. Sì, nella preistoria si limitava solo a cacciare, mentre nelle ere successive si poteva coltivare; oppure nell’età spaziale il mare era semplicemente sostituito da una massa nera che doveva rappresentare il vuoto cosmico. Il punto di forza di Empire Earth era l’editor interno che permetteva non solo di costruirsi la propria civiltà, mappa o scenario; ma addirittura campagne vere e proprie grazie all’implementazione dei propri scripts o alla possibilità di fare mini-scenari. Tutti fattori che garantirono a questo titolo una community fedele, due seguiti, di cui l’ultimo totalmente differente dal primo (ma ne parleremo nella seconda parte)

SONO UN SOLDATO, NON UN ARCHITETTO

Relic Entertainment fu lo sviluppatore di una più fortunata saga rispetto a Impossible Creatures, ossia quella di Homeworld (1999). RTS sci-fi che si distingueva tra gli altri per due principali fattori: l’eliminazione totale della parte macro, ossia della costruzione di edifici, dato che era prevista solo una nave madre dal quale produrre altre astronavi; e una mappa in tre dimensioni dove le nostre astronavi si potevano muovere lungo le tre assi ingaggiando dogfight spaziali con i propri avversari. Se Homeworld fu forse il primo RTS a introdurre la mappa in tre dimensioni, non fu il primo a eliminare la parte macro degli RTS.

HOMEWORLD È FORSE IL PIÙ NOTO FRA I TITOLI CHE SI ALLONTANARONO DALL’ASPETTO MACRO CONCENTRANDOSI SUL MICRO, MA NON L’UNICO

Tendenzialmente furono diverse le strade percorse: Ground Control (2000), Codename Panzers (2004) e Paraworld (2006) eliminarono totalmente le strutture permettendo di poter formare le proprie squadre seguendo determinati limiti e di chiamare i rinforzi in determinate occasioni durante lo scenario. Titoli come la fortunata saga di Sudden Strike (2000) dei russi di Fireglow Games e il meno fortunato Starship Troopers (2000) degli australiani di Blue Tongue Entertainment Pty erano caratterizzati da un maggiore attenzione all’aspetto micro tra la personalizzazione estrema delle singole unità tra statistiche, armi disponibili e addirittura munizioni a disposizione. Infine altri sviluppatori non eliminarono totalmente le strutture dalla mappa di gioco, ma le resero semplicemente catturabili dal giocatore così da potersi garantire le risorse necessarie per il completamento dello scenario: il classico Z dei Bitmap Brothers (1996), la saga Imperium (1999) dei già citati Haemimont Games e infine una seconda saga di RTS sviluppata da Relic Entertainment, ossia Company of Heroes. Ma con questo primo titolo del 2006, l’età dell’oro degli RTS si stava concludendo e oramai si tendevano a considerare questi titoli qualcosa di totalmente diverso dagli RTS, erano oramai RTT: Real-time tactics.

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Screenshot da Warhammer 40,000: Dawn of War – Dark Crusade, seconda espansione dell’RTS pubblicato da Relic Entertainment nel 2004. Il secondo capitolo di questa saga vedrà l’eliminazione degli edifici e di una struttura classica da RTS puntando sulla caratterizzazione delle unità e un approccio da RTT.

Altri sviluppatori potenziarono la parte macro, dando una grande attenzione alla gestione degli edifici, alla posizione, addirittura alla costruzione di una filiera produttiva dove fondamentale era una costruzione coerente delle strutture finalizzata al risparmio del tempo del trasporto delle risorse da una zona all’altra oppure alla “felicità” dei cittadini attraverso il posizionamento di determinate strutture. Ma tutto ciò, portò alla nascita di un nuovo genere, dove la parte micro fu completamente ridotta all’essenziale e l’obiettivo del giocatore più che difendersi dal nemico e raccogliere risorse era anche quello di garantire quella felicità dei propri cittadini o semplicemente lo sviluppo delle proprie città. Nascono titoli intermedi come The Settlers (già nel 1993, cioè un anno dopo Dune 2) o la più fortunata saga dei city-builder di Sierra: Caesar o Zeus; in particolare questi ultimi si pongono davvero in una posizione intermedia tra i violenti RTS e i più pacifici City-builder alla Sim City. Visto come è difficile creare una tassonomia?

RISE OF NATIONS SI DISTINSE PER LA SUA SCELTA DI FARE SUA UNA MECCANICA PROPRIA DEI 4X

Ultimo esempio di questa carrellata è Rise of Nations degli statunitensi di Big Huge Games pubblicato nel 2003. Questo titolo fa propria una particolare meccanica dei 4X di quel periodo come Civilization III o Alpha Centauri 2, ossia l’idea del “territorio” inteso come “area di influenza”. Il giocatore può costruire i propri edifici solo nella sua area, la quale può essere espansa solo attraverso la costruzione di determinate strutture o lo sviluppo del proprio albero tecnologico; inoltre le unità avversarie subiscono danni di attrito quando entrano nell’area avversaria. Rise of Nations, similmente al già citato Earth 2150, presentava una struttura della campagna dove gli scenari non erano connessi tra di loro, ma dipendono dalle scelte del giocatore nei precedenti scenari.

Lo spazio è tiranno e mi fermo qui, nella seconda parte (se ci sarà) parleremo di tutti quella nuova ondata di RTS che privilegiarono l’aspetto micro rispetto a quello macro. Prenderemo per esempio un titolo oramai abandonware ambientato nell’America Precolombiana e infine punteremo a come la saga Total War influenzò totalmente questo genere, non attraverso un’innovazione, ma attraverso un richiamo ai titoli dei primissimi anni ‘90.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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