Street Fighter: la genesi della leggenda

Nell’agosto del 1987 una giovane ma ambiziosa software house giapponese pubblicò il primo capitolo di un franchise che, trentacinque anni e svariate iterazioni dopo, continua a regalare poderose emozioni a chiunque adori i videogame dove c’è da menare le mani. Servono degli indizi? Eccone non uno ma addirittura tre: Hadōken, Shōryūken e Tatsumaki Senpūkyaku.

Street Fighter

Indovinato: stiamo parlando di Capcom & Street Fighter, il simbolo per antonomasia dei picchiaduro. A febbraio di quest’anno è stato annunciato Street Fighter 6 e proprio questo mese il brand compie la bellezza di trentacinque anni, dunque quale migliore occasione dell’anniversario per riscoprire le origini del mito?

LE ORIGINI DEL MITO

Il nostro zompo temporale deve fermarsi tre anni prima del 1987, quando un gioco in particolare contribuì a definire per sempre le linee guida di un’intera categoria. Nel 1984 Karate Champ di Technōs Japan gettò le fondamenta sopra cui i picchiaduro uno contro uno costruirono il loro successo. L’intuizione fu brillante, i testa a testa al meglio dei tre round e i livelli bonus entrarono nelle sale giochi per rimanerci in eterno, alla stregua d’imperiture colonne portanti di un futuro radioso il cui apogeo però era ancora lontano.

Street Fighter
Dopo Karate Champ i picchiaduro continuavano a essere considerati un genere di nicchia, tuttavia le sue gesta ispirarono numerosi game designer e visionari degli 8 bit dell’epoca. Da Yie Ar Kung-Fu di Konami a International Karate di System 3, infatti, furono diversi gli studi di sviluppo che si cimentarono con quel peculiare tipo di esperienza. Grazie a Takashi Nishiyama e Hiroshi Matsumoto, il duo che in precedenza aveva creato Avengers, un beat em up a scorrimento verticale, Capcom colse l’attimo e fece la sua mossa affidando il progetto a chi aveva dimestichezza con le arti marziali. Insieme a diversi artisti del periodo come Keiji Inafune (reso celebre da Mega Man, altro grande successo Capcom), Nishiyama e Matsumoto realizzarono il primo picchiaduro di sempre della software house nipponica: il 30 agosto 1987 Street Fighter vide la luce in Giappone sottoforma di cabinato.

RYU E KEN, I GEMELLI DIVERSI

Paragonando gli ampi roster di oggi a quelli di un’epoca così lontana fa sorridere notare che, in origine, il primo capitolo non prevedeva la possibilità di selezionare liberamente il personaggio da utilizzare. Il protagonista era soltanto Ryu, l’esperto di arti marziali in seguito divenuto emblema del franchise, e il Player 1 non aveva alcun modo di cambiare alter ego. Affrontando dieci avversari guidati dalla CPU in un torneo di arti marziali ambientato in cinque differenti paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Cina, Giappone e infine Tailandia), Ryu doveva farsi largo a suon di calci e pugni fino all’ultimo combattimento contro Sagat, il signore della Muai Thai nonché l’organizzatore del torneo.

Fa sorridere notare che, in origine, il primo capitolo non prevedeva la possibilità di selezionare liberamente il personaggio da utilizzare.

Nel bel mezzo di una partita si poteva aggiungere un secondo giocatore, il quale avrebbe impersonato Ken, il biondo americano che non necessita di presentazioni. La sua apparizione dava luogo a uno scontro fra Player 1 e Player 2, una sfida nella sfida per stabilire chi fosse il combattente migliore tra i due nonché quello che avrebbe continuato il torneo dal punto in cui la partita s’era interrotta. Ecco svelato il motivo per cui Ryu e Ken potevano contare sulle stesse identiche abilità: nessuno dei due contendenti doveva essere avvantaggiato. Giustificare una simile scelta di design fu un gioco da ragazzi grazie a un escamotage narrativo: la spiegazione che i due esperti di arti marziali avevano avuto lo stesso maestro, Gouken, bastò a dare una parvenza logica alla fisiologica decisione degli sviluppatori.

PRIMI ASPRI GERMOGLI DI UN SUCCESSO ANNUNCIATO

A tutto ciò, agli incontri 1 VS 1 al meglio dei tre round e agli stage extra, Street Fighter aggiunse diverse feature degne di nota. La struttura ludica consolidata in precedenza da opere come Karate Champ venne impreziosita non soltanto da degli antagonisti finalmente dotati di personalità, stile di combattimento e background unici che ne aumentavano lo spessore rispetto agli anonimi nemici ammirati altrove, ma anche da alcune peculiarità lato gameplay sicuramente innovative per l’epoca. Il riferimento va ai sei diversi colpi a disposizione (tre pugni e tre calci differenti per velocità e potenza mappati su sei tasti) anziché i canonici due e alle iconiche mosse speciali basate sulla combinazione di precisi movimenti del joystick e sulla pressione di alcuni tasti, il futuro marchio di fabbrica del franchise.

Le mosse speciali, le stesse ormai impresse tanto a fondo nell’immaginario collettivo e nella nostra memoria muscolare, a quei tempi non erano state pubblicizzate

Ora provate a volare con la fantasia – o con i ricordi, se l’avete vissuto sulla vostra pelle – e di ritrovarvi in una sala giochi sul finire degli anni ’80, di non saperne niente di niente e di infilare un gettone in un cabinato chiamato Street Fighter. Riuscite a figurarvi lo stupore di chi, smanettando con il joystick e i pulsanti di un ingombrante ma rassicurante coin-op, tanto improvvisamente quanto inaspettatamente vedeva Ryu scagliare una potente sfera d’energia – ispirata al cannone a onde moventi della Corazzata Spaziale Yamato dell’anime Star Blazers, NdR – contro l’avversario e vincere un round complicato in un modo così spettacolare? Le mosse speciali, le stesse ormai impresse tanto a fondo nell’immaginario collettivo e nella nostra memoria muscolare, a quei tempi non erano state pubblicizzate perciò toccava ai giocatori scovare la sequenza corretta per eseguire i vari Hadōken, Shōryūken e Tatsumaki Senpūkyaku. Purtroppo azzeccare le combinazioni decisive richiedeva una precisione esagerata e, anche per questo, Street Fighter non riuscì a fare breccia nei cuori del grande pubblico.
Prima di abbandonare l’onirica sala giochi del passato guardate un attimo laggiù. Avete notato quel cabinato con due strani cuscinetti al posto dei classici pulsanti colorati da pigiare? Con l’uscita di Street Fighter, Capcom commercializzò due coin-op assai diversi fra loro in termini di input, tuttavia, sebbene l’originalità dell’idea fosse indiscutibile, quello provvisto di cuscinetti da malmenare per dare la potenza desiderata ai colpi in game non riscosse un grande successo.

UNA LEGGENDA NATA DALLE SUE STESSE CENERI

Nonostante diverse trovate all’avanguardia, l’accoglienza generale non fu eccezionale, eppure ciò non impedì a Street Fighter di ottenere un porting – rinominato Fighting Street – sviluppato da Alfa System per TurboGrafx-CD/PC Engine e numerose conversioni più o meno riuscite per le piattaforme casalinghe di allora quali Commodore 64, ZX Spectrum, Amstrad CPC, DOS, Amiga e Atari ST. Dopo la pubblicazione del primo capitolo, inoltre, Nishiyama, Matsumoto e parte del team responsabile del gioco lasciarono Capcom per approdare alla rivale storica, SNK, e realizzare tra gli altri il successore spirituale di Street Fighter, Fatal Fury (novembre 1991). Al di là di conversioni bocciate anche da noi di TGM ed epigoni che ambivano a reclamare il posto vacante di erede di Street Fighter, nel 1989 venne pubblicato da Capcom anche un presunto seguito ufficiale.
Il suo nome era Street Fight ’89. Il gioco era indubbiamente valido e accattivante, tuttavia il team che lo realizzò era differente da quello che aveva generato il primo e soprattutto il gameplay venne cambiato talmente radicalmente – era un beat’em up a scorrimento orizzontale à la Double Dragon, niente a che vedere con il canonico 1 VS 1 – da rendere obbligatorio uno stravolgimento del titolo (divenne così Final Fight, uno dei capolavori senza tempo di Capcom).

In verità nel 1990 vide la luce anche uno spin-off chiamato Street Fighter 2010 per Famicom in cui una sorta di avveniristico Ken era alle prese con un contesto simil metroidvania, ma fortunatamente alla fine il team che doveva garantire un futuro luminoso al franchise imboccò la strada giusta, quella che conduceva direttamente alla gloria eterna.
Nel febbraio del 1991 ci pensò il sensazionale Street Fighter II a gridare al mondo intero che spettava soltanto a lui il compito di raccogliere gli acerbi ma invitanti frutti seminati dal primo capitolo. Migliorando i punti di forza del predecessore e, al contempo, limandone gli aspetti più spigolosi come le combo troppo esigenti in fatto di precisione (problema risolto aumentando la finestra temporale in cui dare i giusti input), il vero e unico sequel di Street Fighter ebbe un impatto talmente devastante sulla scena videoludica di allora da permettere al brand di fare il suo trionfale ingresso nella Hall of Fame dei più influenti franchise di tutti i tempi e a Capcom di guadagnarsi l’amore incondizionato di intere generazioni di gamer. Ecco com’è iniziata un’incredibile storia videoludica che, ancora oggi, a distanza di trentacinque anni e tanti capitoli a cui dal 2023 si aggiungerà l’atteso Street Fighter 6, continua a profumare di leggenda.

PS: Grazie al nostro Dan Hero per la preziosa consulenza. Chi bramasse ulteriori aneddoti e volesse approfondire la storia di Street Fighter può farlo divorando il suo inappuntabile speciale.

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