Narrativa ambientale: What Remains of Edith Finch. Avrete sicuramente ben presente la sensazione di entrare a casa dei vostri genitori, dei nonni, dei parenti, guardarvi intorno e vedere gli oggetti trasformarsi in sensazioni, emozioni, ricordi di episodi vissuti, oppure semplici speculazioni, proiezioni della mente, che prova a ricostruire qualcosa che, dal vivo, non ha mai provato. “Chissà che storia ha quel soprammobile”.
Le mensole, i cassetti, le pareti. Strati su strati, anni di racconti familiari capaci di parlare anche senza la voce dei loro proprietari. Vita e morte, passato e presente, connessi, aggrappati agli atomi di metallo, plastica, legno, pronti a risvegliarsi e risuonare con un solo tocco, uno sguardo, mentre un bouquet di profumi arriva dalla cucina. Sensazioni comuni, quasi scontate a volte, quando si è intorpiditi dalla vita, da pensieri più immediati, pratici. Sensazioni naturali. Come si può virtualizzare qualcosa di così intimo, personale, riuscendo a raccontare la storia di una famiglia che non ha alcun legame con la nostra, ma esattamente come fosse la nostra; come se quella casa, che non abbiamo mai visto prima, potesse raccontarci anche qualcosa di noi?
UNA SERIE DI SFORTUNATI EVENTI
A questo c’è una risposta di genere e una di talento. Il talento è quello di un gruppo, un piccolo studio di sviluppo con base a Santa Monica, Giant Sparrow, che debuttò nel 2012 su PlayStation 3 con il bellissimo The Unfinished Swan, uno dei primi “walking simulator” di successo, insieme a Journey, Dear Esther e allo sperimentale Proteus. Un titolo fiabesco, molto giocoso, basato sull’esplorazione e la risoluzione di enigmi attraverso il lancio di palle di vernice (per poi evolvere e cambiare nel corso dell’avventura), capaci di rivelare i connotati del mondo di gioco, ma anche dotato di una narrativa non banale e ricca di riflessioni decisamente interessanti. Il genere, quello dei Walking Sim appunto, era invece quello perfetto, d’elezione, per la visione ludonarrativa di Giant Sparrow. Un genere, in origine, nato da una specifica esigenza, quella di avere un’immersive sim con visuale in soggettiva e ambiente avvolgente, senza però l’obbligo di doverci infilare azione, aspetti ruolistici o qualsiasi altro strato di gameplay che non fosse inerente alla pura esplorazione, potendosi così concentrare sul racconto e sulla narrativa ambientale. Non avreste mai voluto visitare Rapture senza dovervi guardare le spalle? E quante volte avete passeggiato per Liberty City solo per il gusto di vedere la metropoli muoversi, respirare, parlare intorno a voi?

La casa impossibile dei Finch, ricostruita dopo la disastrosa traversata oceanica che distrusse l’originale dimora degli avi svedesi di Edith. Stupenda.
Per molti erano (e sono tutt’ora) semplicemente “giochi senza gameplay”, classico commento da forum per denigrare un genere che, negli anni, si è invece imposto come uno (se non il) modo più efficace di raccontare una storia attraverso il videogioco, spesso affidandosi a meccaniche uniche e prestando, di conseguenza, le proprie idee ad una marea di produzioni AAA. Nel 2014, col loro secondo titolo, What Remains of Edith Finch, genere e studio fanno un balzo clamoroso, generazionale, grazie anche all’avvento di PlayStation 4. Ispirato, tra le altre cose, a Cento Anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez, il giocatore vive e rivive, nei panni di Edith, la Storia e la rovina della famiglia Finch, costantemente sospeso tra reale e surreale, dramma e leggenda. L’arrivo nella casa impossibile dei Finch, Orcas Island, Stato di Washington, dove la struttura originaria è stata modificata con l’aggiunta di strutture più recenti, che crescono dal tetto in modo precario e abusivo, è una di quelle scene indimenticabili, iconiche. È un po’ come la prima volta a Villa Spencer; si viene travolti dalla presenza della struttura, imponente, diroccata, pregna di racconti che non vedono l’ora di trovare orecchie ben disposte ad ascoltare.
È un po’ come la prima volta a Villa Spencer; si viene travolti dalla presenza della struttura, imponente, diroccata, pregna di racconti che non vedono l’ora di trovare orecchie ben disposte ad ascoltare

Il diario di Edith su cui è disegnato un albero genealogico invernale, le cui foglie sono quasi tutte cadute.
Il momento più struggente e malinconico è quando si entra nella stanza di un suo parente, ognuna chiusa ermeticamente da una Dawn ormai preda di crisi paranoiche, dopo che suo figlio Milton scomparve nel nulla; santuari, mausolei formato camera da letto, dove tutto è cristallizzato nel tempo e un piccolo altare custodisce un ricordo, una lettera, un regalo capace di creare una connessione di gameplay tra vivi e morti, tra Edith e il resto della famiglia. Ognuno scomparso in modo misterioso, assurdo, o forse davvero semplice, con il surreale che diventa una glassa per addolcire il dolore più forte che si può provare, creando storie che diano risposte, colori, a suicidi, incidenti, malattie. Soluzioni ludoartistiche d’impatto clamoroso, disegnate su misura ad ogni personaggio, che trascinano il giocatore negli ultimi istanti di vita dei defunti, consapevoli di quello che sta per accadere, morbosamente curiosi di sapere come accadrà per poi ritrovarsi svuotati una volta che tutto è finito, ancora nei panni di Edith.
QUELLO CHE RESTA DI WHAT REMAINS OF EDITH FINCH
Lewis (1988-2010) che, dopo aver superato la dipendenza da stupefacenti, va a lavorare in fabbrica, tutto il giorno a tagliare teste a salmoni destinati a diventare pesce in scatola, alienato; la mente che comincia a vagare, creare avventure, regni, proiettando un’immagine di sé principesca ed eroica, mentre la sua psicologa racconta alla famiglia delle loro ultime sedute, prima che decidesse di mettere il collo sotto la stessa lama che ha decapitato centinaia di salmoni. Sam (1950-1983) che accompagna la figlia Dawn alla sua prima battuta di caccia al cervo, in una piovosa giornata d’autunno; immersi nella natura, fotografando il panorama e chiacchierando, ritagliandosi un ricordo esclusivo. Poi l’animale, maestoso, si mostra in cima a un costone. È il momento, quello di un brutale rito di passaggio.
Il momento più struggente e malinconico è quando si entra nella stanza di un suo parente, ognuna chiusa ermeticamente da una Dawn ormai preda di crisi paranoiche, dopo che suo figlio Milton scomparve nel nulla

Passare più tempo del dovuto a osservare, zoommare, riflettere, è la cosa più bella, sintomo di una narrativa ambientale avvolgente e dettagliata in modo straordinario.
Di What Remains of Edith Finch resta addosso la capacità di raccontare il dramma, l’evento, gli strascichi psicologici, come solo un videogioco potrebbe fare. È un’opera così umana da essere capace di comunicare con chiunque vi si approcci, ragionando e spingendo a ragionare su quello che resta; di una famiglia, di una vita, di noi. Un titolo che accompagna verso riflessioni profonde, usando il game design per coinvolgere i sensi, irretire, scavare ma, soprattutto, creare empatia, stabilire un contatto.
What Remains of Edith Finch è qualcosa capace di diventare metro di paragone