“Hai mai provato una voglia matta di uccidere quando non hai nemmeno i pollici opponibili? O le mani? O qualsiasi cosa che non sia uno slot per il pane?” (Macchina dei Toast, Fallout: New Vegas)
Uno spazio ormai abissale ci separa dai primi due Fallout, quasi vent’anni di evoluzione dell’industria, e tuttavia oggi sono venute meno alcune delle considerazioni per cui, nel 2008, a tutti pareva normale che Fallout 3 fosse fatto in maniera diversa, che si collegasse ai predecessori nei canoni narrativi ma se ne distaccasse profondamente nel gameplay.
Sorvoleremo per un attimo, se permettete, sui mugugni dei super-appassionati: negli anni precedenti Bethesda aveva portato a un livello mai visto prima la continuità dei contenuti grafici e delle regole in tempo reale dei GdR d’azione, per cui il pensiero che le devastazioni postnucleari di Interplay e Black Isle potessero riprendere vita con quella nitidezza e fluidità, secondo la linea tracciata da Morrorwind e Oblivion, affascinava le masse prima ancora di spaventarle.

Fallout e Fallout 2 sono invecchiati benissimo. Lo stile continua a traboccare da ogni pollice di schermo.
In questo senso Fallout 3 non ha deluso e, al contrario, è riuscito ad attirare a sé miriadi di nuovi giocatori, in un periodo relativamente vicino in cui, però, i sistemi a turni e i CRPG classici sembravano definitivamente relegati in nicchie da indipendenti squattrinati. Oggi, invece, uno dei meriti indiscutibili del crowfundind e delle politiche di Early Access è quello di aver veicolato, accanto a controversie che non è il caso di discutere qui, una vera e proficua rinascita dei Giochi di Ruolo ispirati ai capolavori di fine degli anni ’90, tanto sfaccettati nei sistemi di regole, nelle trame non lineari e nella costruzione dei PG da poter fare a meno della grafica tridimensionale e di altri orpelli degli AAA, con particolare riferimento ai titoli di Bioware e Bethesda (CD Projekt fa storia a se, bontà sua). Anche per questo, contrariamente a quanto abbiamo fatto in un altro speciale su Fallout, ai tempi di New Vegas, stavolta scegliamo di non riavvolgere il nastro fino all’inizio della storia, e anzi vogliamo fermarci a un certo punto, grossomodo nel momento in cui il primo progetto di Fallout 3 ha visto la luce. Era già il 2000.
IL DESTINO DI VAN BUREN

Una schermata dalla tech-demo di Van Buren. Paradossalmente, la grafica tridimensionale l’ha fatto invecchiare peggio.
Della trama conosciamo l’incipit nel ruolo di un prigioniero, la scelta di una nuova ambientazione nel sud-ovest degli Stati Uniti, la presenza in primo piano di un’arma di distruzione di massa, la piattaforma orbitale BOMB-001, e soprattutto il fatto che Van Buren ci avrebbe coinvolti in uno scontro fra Confraternita d’Acciaio e Nuova Repubblica della California, fazione poi apparsa nel Nevada di Fallout: New Vegas. In realtà abbiamo a disposizione tanti altri dettagli del racconto, trapelati prima della chiusura del progetto, e ancor più ne possiamo trovare sull’impostazione del gameplay, direttamente da una tech-demo divulgata nel 2007: se volete metterci le mani sopra è sufficiente scaricarla dall’enorme archivio di moddb.com, per saggiare il lavoro di modernizzazione apportato da Black Isle su creazione del personaggio, vaste opzioni di dialogo e sul sistema di combattimento, senza stravolgere eccessivamente l’impostazione della visuale e, cosa più importante, senza intaccare l’articolata sfida tattica e GdR.
Tutto va riportato a quegli anni, naturalmente, anche in termini strettamente tecnici, ma certo la prima stesura di Fallout 3 avrebbe tracciato una linea di congiunzione più vicina, già nel cuore del nuovo millennio, verso le consuetudini di un genere destinato a ritornare in vita. Oggi i compagni del mai nato Van Buren si chiamano Divinity: Original Sins, Pillars of Eternity, Tides of Numenera e, ovviamente, Wasteland 2, uniti da affinità che non riguardano tanto il sistema di combattimento (il gioco di Obsidian fa eccezione, ad esempio, rispetto ai sistemi a turni), quanto il ritorno a un linguaggio semplice che, paradossalmente, dona al gameplay e all’elemento narrativo un respiro più articolato e un sapore diverso, quasi letterario.

Il robot de “Il Pianeta Proibito”, nel 1956.È uno dei modelli estetici della fantascienza di Fallout.
Del sequel al vero progenitore di Fallout abbiamo parlato in tante occasioni, nelle quali, tra le altre cose, è emerso il fatto che gli amanti della fantascienza, al contrario degli appassionati di fantasy, non hanno moltissima scelta in termini di (moderni) ARPG post-apocalittici, a meno di non rivolgere le propria attenzione alle produzioni indipendenti più piccole e non sempre irreprensibili (ottimo ma molto di nicchia Convoy, abbastanza deludente BEDLAM, per citare un paio di recentissimi esempi). Lo stesso Wasteland 2 di Brian Fargo ed Exile Entertainment è un buon titolo ma non è il capolavoro che molti attendevano, e ha involontariamente dimostrato come la superiorità degli eredi non fosse dipesa solo da questioni “anagrafiche”, ma da un amalgama di originalità narrativa, carisma e comunicazione delle regole (la nascita del sistema S.P.E.C.I.A.L., vedi box) capace di sbaragliare qualsiasi concorrente.
WAR NEVER CHANGES
L’inconfondibile stile “sixties” retro-futuristico, le miriadi di citazioni alla fantascienza “alta” del cinema e nella letteratura, il bimbo Pip-Boy che spiega droghe e strumenti di morte con il sorriso delle migliori occasioni: ogni cosa è stata rimessa al suo posto e integrata in una rappresentazione audio-visiva (anche la colonna sonora con brani d’epoca è fondamentale, in termini di messa in scena) virtualmente aperta a qualsiasi cosa, all’immane lavoro degli sviluppatori originali – e dunque all’immensa campagna di Fallout 3 – ma anche alle centinaia di modder che ne hanno cambiato regole e aspetto. È possibile farsi affascinare da una modifica del gameplay, o apprezzare maggiormente un retexturing dell’impianto visivo, ma affermare che i modder abbiano dovuto “aggiustare” il pessimo lavoro degli open world di Bethesda – come ho letto in diverse occasioni – fa parte di una visione miope e profondamente sbagliata.
Anche con Fallout 4 l’incanto della totale immersione si è ripetuto, e sono fermamente convinto che un appassionato di fantascienza videoludica che non si lasci avvicinare dalla sua intrigante esplorazione, dal sentirsi così padroni del proprio destino, all’interno di un quadro sci-fi così complesso, finisca per farsi mancare qualcosa d’importante, a prescindere dal suo personale culto videoludico. Certo, l’intervento di Obsidian in un preciso punto della nostra storia ha dimostrato tante cose belle, per esempio che l’impostazione sostanzialmente sandbox di Bethesda può essere imbrigliata in una direzione completamente diversa, moltiplicando le opzioni di ruolo, i fattori di sopravvivenza e, in generale, rendendo più selettiva la crescita dell’eroe. Ma sapete che c’è? Io voglio tutto. Mi godo una nuova e libera cavalcata post-nucleare, in attesa dell’annuncio che anelo nel profondo e che non voglio nemmeno ipotizzare, giusto per scaramanzia. Provate voi a indovinare.
L’articolo è tratto da The Games Machine n.327, dov’è apparso insieme alla recensione completa del gioco di Bethesda. A questo indirizzo trovate il nuovo numero di TGM, disponibile come sempre in edicola o su sistemi Android e iOS.