Il remake di Amerzone è in arrivo e quale migliore occasione per ripercorrere la magnum opus di Sokal, che tra l’altro si colloca nello stesso universo narrativo?
Benoît Sokal, venuto a mancare ormai nel 2021, non è quell’autore superfamoso che conoscono tutti nel gaming, ma non è nemmeno misconosciuto. È in quel tipo di nicchia che in un gruppo di dieci persone, due forse lo conoscono. Quelli strani, che si guardano film indie e che vanno a cercarsi i gruppi musicali più remoti.
L’arte di Benoît Sokal nasce nei fumetti
Fumetti, quindi un segmento prettamente narrativo dove un buon storytelling è fondamentale. Un segmento che non basta a un creativo ambizioso, che credeva nella commistione delle arti. E quale tipo di produzione mischia più arti di quella del videogioco? Per lo scenario videoludico del 1999, il genere più adatto in cui infilarsi era quello delle avventure grafiche ed è così che arriva il primo videogioco di Sokal, sotto l’etichetta di Microids: Amerzone.
Seguendo la scia del classico Myst, questa avventura proponeva una struttura a inquadrature fisse e prospettiva in prima persona, con una resa finale surreale. Vestiamo i panni di un giornalista, intenzionato a intervistare un anziano esploratore che vive in un faro e ha visitato i più remoti angoli del mondo. Purtroppo c’è solo il tempo di arrivare e di scambiare poche parole, prima che l’esploratore esali il suo ultimo respiro. Indebolito, anziano, in punto di morte, ha voluto usare i suoi ultimi momenti per affidarci una missione: riportare un uovo ancora vivo in un luogo lontano chiamato Amerzone, da qualche parte in zona equatoriale. Un uovo di un uccello bianco in via d’estinzione e che ha un valore spirituale importantissimo per la popolazione del luogo. Dice di aver pensato a tutto, gli sono solo mancate le forze all’ultimo momento. E noi siamo gli ultimi umani che ha visto. Giornalisti, siamo venuti fin lì a intervistarlo e ora non abbiamo niente in mano. Se non la possibilità di andare a vedere con i propri occhi di cosa l’uomo stava parlando. Guardiamo in giro, troviamo diari e lettere, leggiamo un sacco. Nel seminterrato c’è un tunnel che dà sull’oceano. Un idrovolante. L’uovo (molto grande) è a bordo. La rotta è scritta lì in giro, dobbiamo solo inserirla…
Amerzone propone inquadrature fisse e visuale in prima persona
Il remake è in arrivo a brevissimo e non mancheremo di parlarne, ma questo pezzo è per qualcos’altro. Impossibile parlare di un artista senza analizzare il suo intero percorso, ma il riflettore principale di oggi è per la magnum opus di Benoît Sokal nel gaming, l’unica storia che ha ripreso per ben 3 volte dopo il capitolo iniziale.
Syberia arriva con il suo primo capitolo nel 2002 ed è una serie di avventure punta e clicca “tranquille”, di quelle con mille puzzle da risolvere, schermate fisse e un sacco di grattacapi per capire come combinare un foglio da disegno, pesce essicato e una tazzina. Senza fretta, molto silenzio, un sacco di avanti e indietro a guardare e riguardare in cerca del dettaglio che ci è sfuggito. Vi è però molto spesso anche una la dinamica di “device puzzle”, più sulla linea di giochi come Obduction, Quern, o lo stesso Amerzone. Atrezzature strane che vanno capite e poi utilizzate, in una cultura che non ha ancora conosciuto la digitalizzazione e la tecnologia analogica/meccanica è… un po’ diversa, ma ci arriviamo. Syberia vuole essere un po’ meno immersivo, un po’ più cinematografico del predecessore. Ma è figlio di Amerzone in tutto e per tutto, sin dalla premessa.
Persona che vive la sua giornata tipo e incontra un tizio misterioso di cui seguire le tracce? Check.
Suddetto tizio è uno stravagante inventore? Check.
Dobbiamo, volenti o nolenti, comprendere la sua tecnologia per procedere? Check.
Inseguiva le tracce di creature credute estinte? Check.
Da Valadiléne ad Aralbad
Doveva essere un lavoro semplice. Un volo intercontinentale, un giro in un delizioso villaggio francese, una firma e poi relax fino al volo di ritorno a New York, dove il fidanzato innamoratissimo aspetta a braccia aperte. Tutto pagato dall’azienda. Cosa può andare storto?
E invece dal suo arrivo a Valadiléne, la vita di Kate Walker cambia per sempre, così come anche la sua visione del mondo. Un mondo in cui, un genio incompreso (o diciamo, compreso un po’ a macchia di leopardo, in alcuni luoghi precisi qua e là) ha inventato la tecnologia verde definitiva. Una tecnologia che non usa alcun tipo di combustibile, bensì è ispirata ai giocattoli a molla. Non solo: è una tecnologia che non viene prodotta in serie. Molto raramente vedremo due esemplari dello stesso oggetto, se non le chiavi per riavvolgere le molle e poche eccezioni. Le fabbriche Voralberg producono soluzioni su misura.
Voralberg. Un nome che farà da filo rosso per ogni parte di questa storia in 4 atti. Un nome che non è particolarmente popolare, ma che ha segnato la vita di molte persone. Chi ha posseduto un pezzo originale delle fabbriche Voralberg se lo ricorda bene. Chi ne ha conosciuto il costruttore fa fatica a trovare le parole per parlarne.
Una tecnologia che non richiede l’uso di alcun combustibile
E dalle sue ultime volontà emerge che c’è un erede: in assenza di Anna, la proprietà della fabbrica spetta nientemeno che al fratello Hans Voralberg. Il genio in persona, inventore della tecnologia a molla. Purtroppo, a seguito di un incidente accaduto da piccolo, ha capacità cognitive ridotte e non ha mai compreso le sfumature burocratiche dell’imprenditoria. Un geniale inventore, rimasto però all’innocenza di un adolescente di 10 anni. È stato quindi messo da parte dalla famiglia, che lo ha praticamente disconosciuto, con l’eccezione della sorella. Non solo: per anni è stato creduto morto, fino alla rivelante lettera di testamento. Per come stanno le cose all’inizio della storia, è quindi il legittimo proprietario della fabbrica. Disperso da qualche parte alla ricerca di… Mammut. Il suo animale preferito.
Evabbé, non resta che dare un’occhiata alla fabbrica e cercare indizi sulla sua posizione. E indizi troviamo. Belli grossi, in realtà. In un’ala della fabbrica troviamo nientemeno che un treno, con un binario che si avvia verso est. Un treno che non si connette a elettricità. Che non sembra avere un motore a carbone, né elettrico. E che, come ci viene detto da Oscar, può essere guidato soltanto da lui.
L’avvocatessa e l’androide diventano presto un iconico duo.
Ma che succede quando fai così tanti sforzi per raggiungere un obiettivo, che quando poi ci arrivi… non importa più? Quando durante il viaggio hai scoperto così tanto, che l’obiettivo iniziale diventa solo un minuscolo tassello? Quando cominci a questionare scelte di vita ormai date per scontate?
Da Romansbourg a Syberia
Il secondo capitolo della serie arriva nel 2004 e riprende esattamente dalla fine del primo. Abbiamo rintracciato Hans in un elegantissimo resort ormai prossimo all’abbandono da qualche parte in est Europa. L’uomo, ormai anziano, ci concede la firma per la cessione della sua fabbrica senza battere ciglio. O…ok. Lui e Oscar vanno verso il treno, con l’intenzione di procedere verso est, baci e abbracci, ci salutiamo qui. Tempo di fare una telefonata ai piani alti e farci venire a prendere.
Ma c’è qualcosa dietro la testa di Kate. Quel momento in cui il lavoro chiama un’azione, ma la cosa giusta da fare è un’altra. Il momento dove pensi “non è per questo che siamo qui”. Ma la firma, il lavoro…
Nel dubbio, il treno sta letteralmente partendo e Kate, non avendo ancora deciso cosa vuole fare, decide di aggregarsi a chi ha invece le idee molto chiare in proposito. Una persona che non ha mai perso il contatto con le fantasie del fanciullo, che ha sempre saputo qual è il suo animale preferito. E che costi quello che costi, lo vuole incontrare.
Il momento di rivelazione dove pensi “non è per questo che siamo qui”
Tuttavia, anche da qui Hans è già passato, o ha quantomeno previsto di passarci. Come nel primo capitolo, il binario continua a estendersi verso l’ignoto e faremo diverse tappe forzate per ricaricare il treno. Tappe dove sarà inevitabile venire coinvolti da intrighi locali e seguiti da loschi figuri. Non tutte le azioni del primo capitolo hanno portato amici. Il gameplay si esprimerà con il consueto sistema punta e clicca con schermate fisse accompagnati dai puzzle, che mi sono sembrati più “dritti al punto” rispetto al predecessore. Forse perché lo sono, forse perché, accompagnando Kate, ho iniziato a entrare più in sintonia con la mente che li ha concepiti.
La ferrovia del treno a molla proseguirà un altro po’ e troveremo lungo la strada altri congegni meccanici da interpretare. Ma sempre meno. Perché se dei mammut esistono, di certo sono rimasti ben distanti dall’uomo. Tuttavia, il sogno arde ancora. Ma che succede quando viviamo all’ombra del sogno di qualcun altro, lui/lei lo raggiunge… e noi non abbiamo ancora deciso qual è il nostro? Alcune domande sono più utili come tali, che non con la risposta. Nella rincorsa verso l’arcobaleno, si impara di più nel viaggio che non a destinazione.
Seguendo i sogni di qualcun altro senza aver capito qual è il nostro
C’è molto da dire sul resto della produzione di Sokal, e lo faremo, ma intanto, dopo questo primo approccio, vorrei provare a fare l’esercizio di scomporre le parti che compongono il mondo di Syberia. In parole povere, che cos’è? E a chi è rivolto? Direi che le parole chiave sono steam… no, non steampunk. Non c’è vapore qui. “Spring”punk suona meglio. E poi c’è sicuramente una detective story, dobbiamo trovare qualcuno. Nel contesto di una avventura on the road dove usciamo dalla civiltà per andare verso la natura incontaminata. Nei panni di un’avvocatessa commercialista che va in crisi mistica su cosa fare della propria vita. Sì, direi che per sommi capi ci siamo.
È importante anche dire che la vicenda non tratta affatto temi leggeri, anzi. Ci sono momenti in cui scalda il cuore, altri che invece faranno scendere un velo malinconico di una certa potenza. Però la messa in scena evita la rappresentazione di violenza diretta. Non ci sono eventi visivamente scioccanti, non c’è un vero arcinemico e anche gli eventi più dinamici e rumorosi finiscono per diventare surreali nel ritmo lento e compassato del gameplay. Da un lato si potrebbe dire che questa è una caratteristica strutturale delle avventure grafiche a schermate fisse e in parte è vero. Però basta guardare ad esempio il classico Broken Sword del 1996 e si nota subito un’intenzione che fa il verso ai film d’“azione archeologica“. Syberia non è questo. Per buona parte dei primi due capitoli esploriamo in silenzio stanze piene di storia, ma vuote di persone. C’è molto tempo da passare con i propri pensieri e non soltanto per arrovellarci sulla soluzione del puzzle di turno. Ma questa è solo metà della storia.