Sono passati quasi 8 anni da Braid, ma sembra praticamente ieri che il puzzle game con elementi platform di Jonathan Blow trasformasse radicalmente il mercato dei videogiochi. A distanza di anni il game designer statunitense torna con un’opera che non si allontana, per concetto e furore creativo, dal suo gioco d’esordio, e riesce di nuovo a sconvolgere profondamente l’establishment videoludico. Come in Braid, anche per The Witness il punto di partenza è un canone, che possiamo identificare con le avventure in prima persona in pieno stile Myst: siamo da soli su un’isola e dobbiamo venire a capo della situazione, risolvendo enigmi. L’unicità del tutto sta nella tipologia dei problemi che andiamo ad affrontare: sono tutti basati su un unico concetto, ovvero la risoluzione di pannelli in stile labirinto. Per intenderci, quei puzzle da “Settimana Enigmistica” in cui, armati di penna, dobbiamo collegare i due punti aperti di uno schema. Descritto così, The Witness può sembrare banale, ma non fate l’errore di liquidarlo in questo modo.
GAME DESIGN SEMANTICO
La genialità, o la follia, di Blow, è stata quella di costruire l’intero svolgimento di The Witness attorno a un’idea puramente semiotica. Per riuscire a trovare soluzione agli enigmi disseminati lungo l’isola, infatti, bisogna capire come dare un senso alle cose che vediamo e imparare una sorta di codice con cui risolvere gruppi di pannelli divisi per zone. Il viaggio all’interno dell’isola abbandonata è un vero e proprio percorso di apprendimento e di formazione alla conquista del senso. Blow elabora una sorta di manifesto di game design in cui la costruzione stessa dell’ambiente e il suo svelamento sono legati a doppio filo non tanto all’acquisizione, da parte del giocatore, di abilità di natura psico-motoria, quanto di logico-semantiche. Non si tratta di capire come “battere” il gioco, ma di comprendere profondamente la natura delle cose, la logica dietro ogni singolo elemento dell’isola. Per questo motivo The Witness è un titolo che sa essere frustrante come pochi, a volte anche rigido, fastidioso ed estremamente difficile, ma proprio come qualsiasi processo di apprendimento, regala soddisfazioni enormi ogniqualvolta, dopo aver scoperto qualcosa di nuovo, acquisiamo consapevolezza.
Non si tratta di capire come “battere” il gioco, ma di comprendere profondamente la natura delle cose
L’ISOLA CHE NON C’È
La vera protagonista del gioco è, dunque, l’isola: uno spazio open world tutto da visitare, esplorare, interpretare. Esteticamente siamo davanti a un dipinto in movimento, che con i suoi colori vivaci e le sue strutture poligonali semplici ma esteticamente accattivanti riesce a conquistare immediatamente, facendoci immergere in una dimensione parallela davvero suggestiva. La scelta di Blow di affidare il comparto audio quasi esclusivamente ai suoni naturali, tra l’altro, amplifica il senso di abbandono e straniamento che proviamo, favorendo la totale fusione con l’ambiente, che diventa un posto in cui è bello e piacevole anche semplicemente farsi un giro.
L’aspetto prettamente turistico è importantissimo: spesso e volentieri, infatti, si rimane bloccati davanti a un enigma, e avere in ogni momento la consapevolezza di poter abbandonare la location per dedicarsi a un’altra zona è un dispositivo anti-stress notevole. Tra l’altro, proprio il cambiare prospettiva è, a volte, uno degli elementi alla base della risoluzione dei puzzle, per cui sovente il muoversi nella zona intorno al pannello da risolvere può essere la chiave di volta per carpirne la logica. Contemporaneamente, però, la divisione in aree ben delimitate e profondamente diverse anche esteticamente contribuisce a rendere sempre chiaro l’obiettivo del giocatore, che, al di là di un sistema a nastri colorati che collega i vari pannelli, sa che la soluzione è da cercarsi delimitatamene alla zona in cui si trova. Per limitare la frustrazione il più possibile e, contemporaneamente, educare il giocatore al “codice” utilizzato per i suoi enigmi, ogni area dell’isola introduce attraverso alcuni pannelli “tutorial” un elemento nuovo e fondamentale per la risoluzione dei puzzle. Dopo averci istruito con le basi, che spaziano dalla logica al colpo d’occhio, passando per l’interpretazione delle forme e dei simboli, siamo liberi di affrontare l’area relativa, unendo le diverse nozioni imparate con esperienza e dedizione.
TESTIMONIANZA
Eppure, l’isola di The Witness è molto di più di un insieme di enigmi e luoghi affascinanti: è un paesaggio dell’animo umano, che nasconde una narrazione non lineare e per certi versi non direttamente collegata agli enigmi stessi, ma che rappresenta una chiave di lettura importante dell’intero gioco, nonché l’enigma più elegante del lotto. Disseminati nell’area di gioco, infatti, ci sono messaggi vocali, statue più o meno nascoste, nonché alcune stanze in cui è possibile vedere dei video che spezzettano, attraverso citazioni e suggestioni, una storia che invita a riflettere sul valore stesso della ricerca, in una sorta di meta-enigma molto profondo e non sempre chiarissimo. Dopo oltre quaranta ore alla ricerca di un senso, credo che la metafora di The Witness sia proprio lì, nella sua meta-referenzialità e nei suoi inviti continui al cambio di prospettiva nei confronti dell’esistenza, ma non mi spingo oltre per non rovinare l’esperienza a nessuno. La scelta di nascondere il fil rouge narrativo all’interno dell’isola non la comprendo pienamente, perché probabilmente potrebbe costituire una difficile chiave di interpretazione per chi non si dedica completamente al The Witness, ma è pur vero che un titolo del genere è fatto a uso e consumo di coloro che hanno la pazienza e la voglia di essere testimoni di qualcosa che trascenda il semplice giocare. La natura stessa di The Witness, come abbiamo visto, porta a vivere l’esperienza in maniera totalizzante, se non altro perché gli enigmi possono essere talmente complessi da richiedere l’uso di carta, penna e simulazioni fisiche (se avete dei Lego a portata di mano, vi ritroverete a utilizzarli) delle cose che vediamo sullo schermo. Se non siete disposti a dedicarvi completamente alla lucida follia di Jonathan Blow probabilmente The Witness non vi piacerà, ma se decidete di partire per quella splendida e maledetta isola, sappiate che sarà un viaggio estremamente intenso.
The Witness non è un gioco per tutti, per quanto a tutti farebbe bene vivere l’esperienza ideata da Jonathan Blow. Se Braid ha cambiato profondamente le regole del nostro mondo, portando alla ribalta il concetto di indie game, il nuovo gioco del game designer americano si erge a manifesto di un modo di fare game design estremamente coerente, geniale e profondamente autoriale. Senza tirare in mezzo il complessissimo discorso sull’arte, l’aspetto più autentico e fondamentale dell’opera di Blow è la sua capacità di sfruttare solo e soltanto il linguaggio ludico per inviare i messaggi. In questo caso, il linguaggio degli enigmi si assurge a codice comunicativo a sé, creando un profondissimo sistema semiotico di una potenza disarmante, che non ha bisogno del supporto della lingua per comunicare in maniera efficace con i giocatori. Spiace un po’, forse, che gli elementi più narrativi siano affidati invece alla comunicazione tradizionale che fa del linguaggio creato all’interno del gioco solo uno strumento di accesso alle fonti, ma tutto ciò non va a inficiare il valore assoluto di The Witness.